Le cose a volte succedono e tu non puoi farci niente. Allora fai il meglio che puoi con quello che hai, ma non sempre è abbastanza.
Inizia tutto perché Samantha oggi è triste. Ha appena lasciato il suo ragazzo ed è distrutta. Perché sia distrutta io non lo capisco, ma mi trovo spesso a sentirmi dire che ragiono come un uomo, per cui in questi casi ho imparato a stare zitta. Se però lui era uno stronzo, perché mai dovrebbe essere triste per aver finalmente deciso di toglierselo dalle scatole?
Ad ogni modo se Samantha è triste noi, in quanto sue amiche del cuore, siamo in dovere di tirarla su di morale. Decidiamo perciò di portarla fuori e farle passare una fantastica serata. E se entro la fine si sarà fatta qualche nuovo amico, tanto meglio.
Per cominciare Roberta va a prepararsi a casa di Samantha, così da consigliarla su come agghindarsi per bene e farle compagnia. Si sa che quando siamo tristi abbiamo poca voglia di farci belle, per cui serve un aiuto esterno per fare in modo che la nostra amica sia quello che deve essere oggi, e cioè una figa pazzesca. Quando arriviamo là anche io e Jessica, vedo che Sam sta già iniziando ad entrare nell’umore giusto. Quando arriva (come sempre per ultima) anche Natalie, noto un’altra cosa: stasera siamo davvero un bel gruppo di gnocche. Vestiti non troppo corti e trucco non troppo pesante in modo da non sembrare donnacce, ma siamo proprio delle belle figliole. Tra parentesi e senza falsa modestia, io nel mio abitino rosso sono uno schianto. Lo dico anche alle altre e ci facciamo un selfie pre-party prima di uscire, in maniera che Roberta lo possa mettere su Facebook: l’idea è quella di fare invidia all’ex di Samantha mostrandogli quanto si stia divertendo senza di lui. Noi non lo ammetteremo mai con lei, ma siamo tutte contente che se lo sia lasciato alle spalle e abbiamo intenzione di fare in modo che se ne dimentichi nel più breve tempo possibile.
Il programma è quello di andare a cenare in un ristorante vegano nel centro della città, per cui chiamiamo due taxi per farci accompagnare. Nessuna di noi ha intenzione di guidare stasera e io comunque manco ce l’ho una macchina.
I manicaretti che ci preparano sono deliziosi, con buona pace di chi pensa che vegano significhi triste e insapore. Ci facciamo portare una bottiglia di vino bianco per accompagnare il tutto, e al momento del dessert facciamo arrivare anche una bottiglia di champagne. Per fortuna siamo in cinque e per fortuna abbiamo mangiato, ma io inizio lo stesso a sentirmi girare la testa e vedo che anche le altre (Sam compresa) sono un po’ più allegre e ridanciane di quanto fossero all’inizio. Bene così, penso, questo era quello che volevamo, no?
Finiamo di cenare, ci rilassiamo, chiacchieriamo, ridiamo. Per finire la serata in bellezza decidiamo di andare all’Intense. L’Intense è un nightclub un po’ fuori dal centro, ma sembra sia uno dei migliori locali della città. A me va benissimo perché un altro vantaggio di quel posto è che è a poco più di un chilometro da casa mia, per cui potrò tornare indietro a piedi e risparmiare qualcosa di trasporto. Stasera non si bada a spese, ovvio, ma i tassisti di qui sembra vogliano succhiarti il sangue, per cui, se si può, meglio evitarli. Io sono pure un po’ anemica, poi.
Arriviamo al nightclub che siamo ancora un po’ brille e per non perdere il momento appena riusciamo ad entrare ci fiondiamo al banco. Ordiniamo altro champagne e andiamo subito in pista a ballare.
La serata passa tra musica, drink, chiacchiere e sigarette. Non beviamo al punto di non capire più niente, ma quando cominci a fare discorsi seri mentre sei fuori a fumare e quando trovi sempre più complicato essere stabile sui tacchi sai che non sei del tutto a posto. Lascio che le altre si prendano ancora un drink o due, ma io inizio a bere solo acqua gassata e sento che ricomincio a prendere il controllo. Non sono una salutista, ma da qualche tempo i postumi di serate come queste sono diventati più fastidiosi di una volta, per cui preferisco non esagerare. Chiedo però al barista di versarmi l’acqua in bicchieri da superalcolici, in modo da evitare prese in giro dalle mie amiche. Ho una certa fama di ragazza festaiola, io, e non posso permettere che mi vedano bere analcolici.
Tutto procede divinamente quindi, a parte un tipo che ad un certo punto tenta di abbordarmi mentre aspetto il mio drink.
– Ehi, bella, cosa bevi di buono? – mi chiede.
Lo guardo e vedo che non è neanche male, ma oggi non ho voglia di fare nuove amicizie. Sono qui per Sam e basta.
– Acqua, – rispondo sintetica.
Lui sorride e insiste:
– Posso offrirtene un’altra tra poco, allora? –
Io odio fare quella che se la tira, ma non ho veramente tempo per lui.
– Ascolta, sei molto carino, ma sono qui stasera con delle mie amiche e non voglio fare altro che ballare e far festa con loro, OK? –
Il suo sorriso non cede di un millimetro e risponde:
– Ma un bel culetto del genere avrà bisogno di compagnia a fine serata, no? –
E allunga una mano a palparmi il sedere.
Io sono talmente esterrefatta che resto a bocca aperta e nemmeno mi sfiora l’idea di tirargli un gancio sui denti. Mi sembra irreale che nella vita di tutti i giorni qualcuno tenti di provarci con me in maniera così schifosa. Sono sbalordita.
– Ma sei fuori di testa, cazzo? Ma vattene fuori dai coglioni e non farti più vedere! E non provare più a toccarmi che ti faccio buttare fuori! –
Prendo la mia acqua e me ne vado, non senza lasciargli un ultimo “testa di cazzo!” in omaggio. Il sorriso non ha mai lasciato le sue labbra neanche mentre lo insultavo, e la cosa mette i brividi. Ce n’è di gente malata a questo mondo.
Appena ritorno al mio gruppo racconto subito l’avvenimento alle mie amiche, ma il tipo nel frattempo si è eclissato e non riesco a indicarglielo. Per fortuna poi la serata continua e io mi dimentico dell’accaduto, anche se ogni tanto mi sfrego la natica che il pezzo di merda mi ha toccato. Mi sento sporca, e non so perché.
Tra un’acqua e l’altra arriva l’ora di chiusura del locale. Le mie amiche sono brille ancora più di prima, e anche se fanno finta di voler trovare un altro posto aperto, vedo benissimo che in verità sono stanche e vogliono andare a casa. Le invito a dormire da me, ma alla fine decidono di andare ognuna nel proprio letto, per cui non insisto e lascio che chiamino un taxi. Aspetto con loro che arrivi l’auto, poi le saluto e mi avvio a piedi.
Non sono stanca. L’alcol ha ormai smesso di fare effetto su di me, e mi sento più energetica che mai. Mi sono anche tolta le scarpe coi tacchi che mi stavano torturando da ore e ho indossato le Converse che mi ero portata in borsa proprio per questa evenienza. Una camminata fino a casa è quello che ci vuole, così da farmi rilassare e smaltire l’eccitazione che sento ancora dentro. La serata è stata davvero divertente e sono sicura che anche Sam l’ha apprezzata: non l’ho mai vista così scatenata.
Passeggio e mi guardo attorno, godendomi l’aria fresca della notte. Il trench che indosso è quasi solo per figura, perché si sta davvero benissimo. Giro l’angolo e vedo tre ragazzi dall’altra parte della strada che stanno parlando. Non li registro quasi, persa nei miei pensieri.
– Ehi bella, dove vai sola soletta con quel tuo bel culetto? –
Riconosco la voce. E’ il tipo di prima. Lo Stronzo. Un brivido mi attraversa, ma non lo do a vedere e continuo a camminare. Non mi giro neppure, faccio finta di niente. Mi maledico per aver deciso di andare a casa a piedi, ma c’è ancora qualche macchina per strada, per cui non dovrebbe esserci in pericolo. Mi costringo a non accelerare. Quegli uomini sono come animali: se sentono l’odore della paura si eccitano. Non posso permettermelo.
Nonostante le auto, sento che parlano e che attraversano la strada dietro di me e iniziano a venirmi appresso. Merda. A questo punto accelero davvero il passo. Manca ancora un chilometro a casa mia e se riesco a tenerli a distanza sono a posto. Infilo la mano in borsa e stringo il cellulare tra le dita senza estrarlo.
A questo punto non so se sento qualcosa o se semplicemente sia il mio sesto senso ad avvertirmi, ma lancio un’occhiata alle mie spalle per vedere cosa stanno facendo e vedo lo Stronzo che è partito in uno scatto verso di me, velocissimo e silenzioso. Incespico dallo spavento, mi scappa un gridolino, ma poi inizio a correre anch’io. E’ troppo tardi. Lui è già lanciato e io non riesco nemmeno a prendere velocità che mi ha già afferrato per il braccio che tiene la borsa.
– Stai tranquilla, non voglio mica farti niente, – mi dice con il fiatone.
– Mollami allora, cazzo, – dico io.
Non fargli vedere che hai paura, non fargli vedere che hai paura.
– Vieni qui, dai, voglio solo che andiamo un po’ a divertirci, – dice lui. Non mi lascia il braccio, però, e nel frattempo stanno arrivando anche i suoi amici, con due ghigni sul volto che non mi piacciono per niente. Sono bloccata, e la paura mi fa galoppare il cuore.
Sono nella merda.
Non mi lascio il tempo di pensare. Mi avvicino di un passo e poi mi ritraggo di colpo, tentando di divincolare il braccio dalla sua presa. Lui viene preso di sorpresa e riesco a liberarmi, ma riesce subito a prendermi per la borsa. Io scatto lo stesso, sperando di strappargliela di mano, ma stavolta non molla e io sono costretta ad abbandonarla. Tengo però il telefono in mano e mentre inizio a correre, inizio anche a gridare aiuto. Il quartiere in cui sto passando non è disabitato, è una zona residenziale con condomini e villette singole e bifamiliari. Qualcuno deve sentirmi, cazzo.
Non esce nessuno da quelle case, e intanto tutti e tre i ragazzi hanno iniziato a inseguirmi. Smetto di urlare, rendendomi conto di quanto sia inutile. Se anche qualcuno mi sentisse, non avrebbe nemmeno il tempo di scendere dal letto e vedere di cosa si tratta, che noi saremmo già passati oltre da un pezzo.
Risparmio il fiato e corro.
Io so correre se voglio. Le sigarette che sono solita fumare non aiutano e nemmeno le Converse sono proprio adatte alla corsa, ma sempre meglio dei tacchi. Per cui sparo fuori tutto quello che ho e corro come se non ci fosse un domani, con il trench che si apre dietro di me come il mantello di un supereroe.
Cappuccetto Rosso che scappa dai lupi cattivi.
Dopo un paio di centinaia di metri mi arrischio a guardarmi indietro: mi sono ancora attaccati alle chiappe. Corrono veloci anche loro, cazzo. Valuto in una frazione di secondo se cambiare strada e dirigermi verso dei quartieri più trafficati, visto che qui sembra non passare più nessuna auto, ma scarto l’ipotesi immediatamente. Sono le quattro di mattina e non è detto che trovi gente in giro, in più il centro è lontano e non so quanto riuscirò a resistere a correre così. Per quanto forte riesca ad andare la paura sembra togliermi il fiato e comincio a sentirmi a corto d’aria.
No, devo andare a casa mia e sperare di riuscire ad entrare prima che arrivino loro.
Devo girare solo un altro angolo, poi ho un altro mezzo chilometro di rettilineo e sarò arrivata. Provo ad aumentare, ma non ce la faccio. Gli altri mi sono addosso, ormai.
Arrivo al bivio e mi lancio a sinistra senza nemmeno rallentare. Scivolo su qualcosa che sembra una pozza di vomito, ma riesco a non cadere. Perdo velocità però, e uno degli amici dello Stronzo riesce ad avvicinarsi a me prima che riesca ad aumentare di nuovo. Sento il suo sbuffare alle mie spalle, e ad un certo punto uno strattone fortissimo all’impermeabile quasi mi getta a terra. Il tipo è riuscito ad afferrarmi e ora vuole farmi cadere. D’istinto tento di togliermi il trench per lasciarglielo in mano e fuggire. Riesco a sfilarmi una manica, ma l’altro mi strattona di nuovo prima che riesca a liberarmi del tutto dall’ingombro. Io quasi cado, ma questa volta riesco a tirare anch’io in avanti, mentre continuiamo a correre. Lui non se lo aspetta e perde l’equilibrio, inciampando e schiantandosi addosso a una panchina. Sento un crack terribile, e non capisco se sia la sua testa o il legno, ma non ho tempo di controllare. Riesco a strapparmi di dosso il trench, ormai solo un impedimento, appena prima che gli ultimi due mi raggiungano. Ovviamente (troppo facile sennò, vero?) perdo la presa sul cellulare mentre mi tolgo l’impermeabile, e il mio caro smartphone cade a terra. Non penso neanche per un istante di fermarmi a raccoglierlo, ma riprendo velocità e lascio tutto là. Ora, se non sono proprio delle bestie, gli altri due dovranno fermarsi ad aiutare il loro amico, no? Mi guardo indietro e uno in effetti si è anche fermato, ma l’altro mi è alle costole e non accenna a rallentare. Ma come cazzo fanno a correre così?
Scorgo la mia casa in lontananza. La mia tana è una villetta singola con un piccolo giardino e un garage. Non è niente di particolare, ma vedendola adesso sono sopraffatta dal sollievo. Tento di non diminuire il passo, ma ormai sono davvero al limite delle mie energie. Devo mettermi in salvo subito, non riuscirei a correre di più.
E’ in questo momento che ricordo che le chiavi di casa sono rimaste nella mia borsa. Impreco. Non è un problema, forse, ma ho bisogno di mettere più spazio tra me e il mio inseguitore. Aumentare la velocità è fuori discussione, per cui faccio quello che tutti i film insegnano: appena passo vicino ad un bidoncino delle immondizie lo afferro con una mano e lo butto a terra subito dietro di me. Il tizio mi vede farlo e tenta di saltarlo, ma si vede che comincia ad essere stanco anche lui, perché non solleva abbastanza il piede per superarlo e si schianta di brutto sul marciapiede. Secondo me si è fatto talmente male che per un secondo valuto di fermarmi, tornare indietro e prenderlo a calci in testa, ma poi penso agli altri due suoi colleghi e continuo per la mia strada.
Arrivo al cancello di casa mia, lo salto e mi lancio verso il garage. La chiave della porta di fronte è persa insieme alla mia borsa, ma il locale macchina è quasi sempre aperto. Nella mia zona di criminalità non ce n’è, inoltre non possiedo un’auto e nei due scaffali che ci sono lì dentro tengo solo vecchie chiavi inglesi, chiodi e altra roba che era di mio nonno prima che morisse e mi lasciasse la villetta. C’è però un’altra entrata alla casa e c’è anche la chiave di scorta per aprirla che tengo dentro un vasetto su uno dei ripiani.
Sbatto il portone del garage dietro di me e prendo il vasetto, che però si schianta a terra e va in frantumi. Raccolgo la chiave, la infilo nella toppa della porta di entrata e apro. Mi infilo dentro, chiudo tutto e mi accascio a terra. Il cuore mi sta battendo così forte che lo sento in gola e la paura mi rende difficile anche riprendere fiato.
Sono al sicuro però adesso. O almeno spero.
Mi allontano a gattoni dalla porta. Non ho ancora energia per alzarmi, ma devo andare a controllare una cosa.
Vado silenziosamente in sala da pranzo, dove ho le finestre che danno sulla strada. Al contrario di molte altre case in questa città io ho anche le persiane e quindi è tutto buio. Questa però è la mia tana, e qui posso muovermi senza bisogno della luce. Mi avvicino a una delle finestre e guardo attraverso una fessura. Faccio in tempo a scorgere quello che non avrei voluto vedere.
I miei tre inseguitori hanno visto dove sono entrata e hanno appena saltato il cancello. Tutti e due quelli che sono riuscita a sbattere per terra sembra si siano ripresi perfettamente. Ma non sentono mica il dolore? Il tipo che mi ha abbordato in discoteca, lo Stronzo, è in testa al gruppo, gli altri due si guardano attorno un po’ nervosamente, ma lo seguono. Credo di sapere cosa pensano. Vogliono chiudere i conti, temendo che possa denunciarli e magari riconoscerli. E hanno ragione, ovviamente. Purtroppo hanno ragione anche su un’altra scommessa che stanno inconsapevolmente facendo: il cellulare che ho perso per strada era anche il mio unico telefono. Nessuno ormai ha più il telefono fisso a casa, e io non faccio eccezione. E’ stata la prima cosa che ho fatto togliere, quando ho avuto in eredità l’abitazione da mio nonno, e quanto me ne pento ora.
Non è l’unico lato negativo dell’essermi rinchiusa in casa mia. Il portone del garage infatti è rimasto aperto, per cui ora i tre sono dentro il locale e non sono più visibili dalla strada. Meno preoccupazioni per loro.
Penso di buttarmi fuori dalla porta davanti, ma non posso nemmeno immaginare di ricominciare l’inseguimento. Ho i polmoni in fiamme e le gambe fanno fatica anche solo a tenermi in piedi. Non ce la posso fare.
Sento che trafficano e fanno casino nel mio garage e so benissimo cosa stanno facendo. Cercano qualcosa per aprire la porta, un trapano, una mazza, un piede di porco. E io so che lo troveranno, perché mio nonno aveva di tutto lì dentro, e prima o dopo quegli stronzi riusciranno ad entrare.
Qui però finiscono i lati negativi dell’essere dove sono ora. Trovarmi tutte le vie di uscita chiuse tranne una paradossalmente mi rende più calma.
Mi alzo in piedi e accendo la luce, tanto ormai sanno che sono là. Dopodiché vado in camera da letto, apro l’armadio blindato e tiro fuori il fucile. Si tratta di un Beretta calibro 12 semiautomatico. Mio nonno era solito andare a caccia quando abitava in campagna, e anche se si era trasferito in città non aveva rinunciato a portare con sé la sua arma. “Non si sa mai” era quello che diceva sempre a me, e anche quello che diceva sempre ai miei quando mi portava in poligono di tiro per insegnarmi a sparare.
Mi sento molto più tranquilla con il fucile in mano. E’ carico e pulito e sembra avere voglia di essere usato. Non è perché sono una donna che devo essere come le oche dei film che per salvarsi sanno solo chiedere aiuto all’uomo forte.
Vado a posizionarmi davanti alla porta d’entrata del garage. Li sento imprecare a bassa voce mentre tentano di aprire a forza l’uscio. Urlo:
– Stronzi, ho un fucile in mano. Andatevene e non fatevi più vedere sennò giuro che vi sparo! –
I rumori si interrompono per alcuni secondi, poi sento una risatina e il casino ricomincia. Non mi credono. Valuto di sparare un colpo di avvertimento, poi una parte più fredda di me mi ci fa ripensare. Non ho nessunissima intenzione di rovinare il muro oltre alla porta che stanno già rompendo loro. E poi sono incazzata. Dio, se sono incazzata.
Aspetto quindi che finiscano di sbattere e spaccare. Rimango in sala da pranzo e vedo che uno dei due colleghi dello Stronzo ha la testa fuori dal garage per controllare che non scappi da davanti. Io però non ho alcuna intenzione di scappare.
Ad un certo punto qualcosa cede di schianto e la porta si spalanca. Quando li sento venire avanti esco dalla stanza, porto il fucile alla spalla, punto e sparo. Colpisco quello davanti al ginocchio destro e non è ancora a terra che sparo di nuovo e colpisco anche il secondo ad una gamba. Non ho ancora perso l’allenamento a quanto pare. La casa si riempie di urla di dolore e io inizio a camminare verso di loro sempre con il fucile puntato.
Il terzo ragazzo è lo Stronzo. Non l’ho lasciato per ultimo per sbaglio.
Quando mi vede avanzare l’espressione stupefatta sulla sua faccia lascia il posto alla paura, quindi si volta e scappa. Io gli sparo addosso, ma lo manco. Bestemmio: ho rovinato il muro. Potrei farla finita qui, ma ormai non ragiono più e ho sete di sangue. Lo inseguo in garage e poi fuori di casa. Lo Stronzo però non è così stupido e mi sta aspettando fuori con il piede di porco che ha usato per entrare. Mi colpisce appena esco: sono fortunata che non mi prenda alla testa, ma riesce comunque a ferirmi al braccio destro e a farmi cadere il fucile. Tenta subito di colpirmi di nuovo, ma io mi scanso e lui prende invece il portone del garage, restando incastrato. Io faccio quello che avrei dovuto fare fin dal primo momento e gli tiro un gancio sui denti con tutta la forza che ho. Devo usare il braccio sinistro e mi faccio malissimo alla mano, ma lui va giù come un sacco di patate. Prima che si riprenda gli salto sopra, gli prendo la testa e inizio a sbattergliela sul marciapiede, ignorando il dolore atroce al braccio destro. Ringhio come un cane rabbioso, e non so cosa mi trattenga dallo sbranargli la gola.
Smetto di picchiargli la testa sul cemento dopo qualche secondo. Faccio fatica a rimettere a fuoco i pensieri nella nebbia rossa che li pervade, ma riesco a fermarmi. Mi sembra che respiri ancora. Sinceramente non è che mi interessi molto. Recupero il fucile e rientro in casa per controllare che i suoi due amici non si siano mossi. Sono ancora là e da come si lamentano sembrano presi abbastanza male. Direi che è il momento di chiamare i soccorsi, se i miei vicini non lo hanno già fatto. Tenendo sempre nella sinistra il fucile mi avvicino a quello dei due che sembra preso peggio e gli frugo nelle tasche per trovare il suo cellulare. Il tipo nemmeno prova a muoversi, probabilmente troppo debole per la ferita.
Chiamo il pronto intervento, poi vado in cucina e mi scolo mezzo litro di acqua gassata. Valuto se andare a portare qualcosa agli stronzi che ora tappezzano il pavimento di casa mia, poi ci ripenso e vado a sedermi sul divano. Accendo la TV, ma l’unica cosa che trovo di interessante è un documentario sulla Patagonia. Spengo.
Chiudo gli occhi e aspetto di sentire le sirene.
Le cose a volte succedono e tu non puoi farci niente. Allora fai il meglio che puoi con quello che hai, ma non sempre è abbastanza.
Altre volte invece lo è.