Nel Bush

per J.K. e C.M.

Photo by G.B.

Photo by G.B.

Se vuoi viaggiare per il Regno di Oz puoi prendere pullman, aerei, navi, puoi anche decidere di camminare. Ma no! Tu devi prendere un’auto e farti il giro del continente da solo! Sarai coglione!

Questo è il tenore dei miei pensieri mentre scendo dalla Holden che mi ha appena lasciato a piedi. Sono ad almeno trecento chilometri dalla più vicina città e la gravità della situazione mi si è stagliata chiara in testa non appena il motore ha cominciato a dare problemi. La macchina ha iniziato a sobbalzare e il rombo potente a cui ero abituato è stato sostituito da una tosse bolsa. La station wagon ha cominciato a rallentare sempre di più e si è infine fermata in mezzo alla strada, incurante dei miei frenetici tentativi di dare e togliere gas per ravvivarla.

Apro il cofano per vedere se si può fare qualcosa. La mia conoscenza della meccanica si estende a poco più del sapere che la macchina va a benzina, ma ci provo lo stesso. Controllo e vedo che olio ce n’è, carburante ce n’è, liquido di raffreddamento ce n’è e tutti i fili e i tappi e le cose varie che ci sono dentro un motore sembrano attaccate e a posto. E’ a questo punto che l’autoflagellazione comincia. Non so dove sbattere la testa.

Riprovo ad accendere l’auto, sia mai che qualche divinità di passaggio abbia toccato il motore e questo si sia sistemato.

Nisba.

Le imprecazioni contro me stesso e contro il cielo indifferente iniziano a raggiungere parossismi di indubbia altezza, mentre inizio a prendere a pugni lo sterzo e qualsiasi cosa mi arrivi a tiro. Dopo essermi spaccato le nocche addosso alla leva del cambio mi ricordo finalmente di una delle più belle parole che abbia imparato da quando sono arrivato nel Regno di Oz, sentendo il sollievo estendersi in tutto il mio corpo.

RACQ.

Nella Terra di Oz l’assicurazione obbligatoria è compresa nella registration, che è simile al nostro bollo. Oltre a questa puoi decidere di farti un’altra assicurazione per eventuali danni a terzi e inoltre diventare anche un membro RACQ. Se prevedi di viaggiare a lungo infatti può essere che ad un certo punto della tua avventura ti capiti di restare a piedi. Se sei un membro ti viene fornita tutta l’assistenza stradale che ti può servire e anche un passaggio fino alla prima città: chiami il numero che ti danno, attivo ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette e nel più breve tempo possibile arrivano i soccorsi. Io (sentendomi molto furbo) ero diventato membro Gold Class Superior Ultra Blablabla, sborsando un bel po’ di soldi, ma partendo tranquillo per il mio road trip.

Se anche capitasse la sfiga di vedermi fondere il motore mi basta telefonare, mi vengono a prendere e mi riparano anche l’auto, era stato il mio pensiero.

L’inghippo di questo ragionamento mi diventa evidente nei minuti immediatamente seguenti al mio stop forzato.

Mi basta telefonare.

Quello che non ti dicono del Regno di Oz e quello che non ti dicono all’RACQ è che se devi telefonare per farti soccorrere va tutto bene finché sei in città o nei dintorni, ma appena sei un po’ più fuori zona la copertura di rete va a farsi benedire, per cui altro che telefonare. Avresti più successo nell’addestrare un dingo selvatico a portare un tuo messaggio alla prima officina aperta. E’ inutile quindi che io abbia il telefono carico e tutti i numeri di emergenza stampati e infilati nel cruscotto. Quando vedo che non riesco a fare la mia chiamata, per un momento penso di iniziare a fischiare e vedere se un dingo volenteroso appare all’orizzonte, poi mi limito a tirare giù dal cielo un congruo numero di Santi e Divinità, cosa inutile, ma relativamente soddisfacente.

Inizio a camminare attorno alla mia auto, tracciando cerchi sempre più ampi e tenendo il telefono di fronte a me, sperando di trovare un punto in cui magicamente riesca a prendere un po’ di rete. Dopo mezz’ora di peregrinazioni mi arrendo e torno alla Holden, sudato e ancora più incazzato di prima. Nella mia rabbia iniziano a farsi strada lentamente fili di paura, ma provo a non pensarci e mi dedico invece ad un inventario di quello che ho nel bagagliaio.

Valigia piena di vestiti: inutile.
Computer e aggeggi tecnologici vari: inutili.
Cuscino, coperta, materasso gonfiabile, sacco a pelo: utili, se si dovesse arrivare ad affrontare la notte, qualcosa però su cui preferisco non soffermarmi a pensare.
Contenitore da dieci litri di acqua pieno a metà.
Due barrette energetiche.
Due mele.
Tanica di benzina da venti litri.

Photo by Indrek Torilo

Photo by Indrek Torilo

Valuto di dare fuoco alla macchina, un po’ per vendetta e un po’ per creare una sorta di segnale di soccorso, poi ci ripenso. Controllo lo stradario del Queensland e trovo conferma di quanto già sapevo: sono nel buco del culo del mondo. Attorno a me si estende deserto, deserto e ancora deserto. Non ci sono segni di insediamenti umani per centinaia di chilometri, ed in effetti io la tanica di benzina l’ho comprata nell’ultima roadhouse in cui ho fatto il pieno proprio in previsione di questa parte del mio viaggio. Non ho preso la strada principale perché questa è più diretta, e anche se fatta di ghiaia e terra le mie informazioni dicevano che era in buono stato. Non volevo allungare il mio tragitto e, diciamo la verità, mi affascinava passare attraverso il bush da solo, lasciandomi alle spalle una scia di polvere rossa, sotto cieli senza fine e in compagnia solo di me stesso.

Per come si stanno mettendo le cose potrebbe benissimo essere che questa sia anche l’ultima compagnia di cui godrò su questa terra.

Metto da parte anche questo pensiero, ben sapendo che tornerà a trovarmi di nuovo a breve, e tento di riflettere invece su cosa fare.

Opzione A: aspetto.
Mi metto all’ombra della macchina, bevo il meno possibile, mangio il meno possibile e attendo che passi qualcuno.

Opzione B: cammino.
Indosso il mio cappello in pelle di canguro, mi spalmo un po’ di crema solare e mi avvio verso la direzione in cui c’è la cittadina più vicina.

Nessuna delle due mi attira molto, a essere sinceri. Valuto anche di aspettare la notte prima di partire, ma scarto subito l’ipotesi: il buio che c’è nel mezzo del bush è qualcosa di così totale che dovrei procedere a tentoni e rischierei di uscire dalla sede stradale senza nemmeno accorgermene.

A pensarci seriamente incendiare la macchina ed aspettare aiuto non è una così brutta idea, ma il problema è che si tratta di qualcosa per cui hai solo one shot: se nel tempo in cui va a fuoco nessuno vede almeno il fumo non posso più rifarlo. Inoltre la macchina mi serve per chiudermi dentro in caso debba passare la notte lì: quando cala il buio arriva anche il freddo e con l’oscurità anche gli animali selvatici. Per quanto l’idea del dingo messaggero sia molto carina, l’idea di branchi di cani selvatici o di altri animali pericolosi è molto più realistica. Per non parlare di ragni, serpenti, scorpioni e quant’altro la fauna della Terra di Oz possa offrire.

Sono ad uno stallo e non so più cosa fare. La paura aumenta, ma non so nemmeno come sfogarla. Piango un po’, poi rido, poi bestemmio, poi finalmente mi calmo.

Ricordo nel frattempo la storia di due esploratori che si erano perduti nel Regno agli inizi del secolo scorso. Un misto di inesperienza e poca furbizia li aveva ridotti nel mezzo del deserto senza più nessuno dei cammelli con cui erano partiti, tranne la carcassa di uno che era morto dopo essersi spezzato una zampa. Uno dei due uomini si era ferito, per cui l’altro decise di andare alla ricerca di soccorsi. Prese la maggior parte delle scorte d’acqua e lasciò il primo all’ombra del cadavere del cammello, rassicurandolo che sarebbe tornato al più presto con gli aiuti.

Non venne più visto sulla faccia della terra.

L’uomo ferito invece venne ritrovato e salvato da una spedizione partita in loro soccorso prima ancora che si sapesse che erano nei guai, indovinando che ne avrebbero avuto bisogno.

La morale di questa storia, suppongo, è che forse è meglio se rimango all’ombra della mia auto e aspetto che arrivino gli aiuti. Peccato che nelle quattro ore che ho passato alla guida non abbia mai incrociato altre macchine e peccato che anche nelle ultime due ore non sia passato nessuno. Dopotutto perché una persona sana di mente dovrebbe percorrere una strada di ghiaia nel mezzo del nulla, quando c’è una strada asfaltata nuova e larga che porta agli stessi posti? Perché mai? Aggiungo anche questa domanda alla lista di cose a cui non pensare e rimango a disperarmi un altro po’.

Nel corso delle ore seguenti non faccio altro che continuare a pensare a cosa potrei fare, e nel frattempo aspetto.

Bevo un poco.
Riscopro la fede e prego Dio che mi aiuti.
Scopro di avere pure una certa fede in Allah e prego anche lui, per poi passare a Visnu e all’intero Olimpo romano e greco.
Bevo un altro poco.
Mangio una barretta.
Piscio in una borraccia e spero di non dover mai dover bere quella roba.
Mi addormento.

Quando mi sveglio non è ancora passato nessuno e il sole sta calando. Tutto questo mi fa rivalutare l’idea di provare a camminare verso l’insediamento più vicino a me. Riguardo lo stradario, rifaccio i conti dei chilometri, arrivo di nuovo ad un numero a tre cifre troppo alto anche per un tipo in forma come me e riarchivio l’idea. Forse la disperazione mi farà imboccare quella via domani mattina, ma per il momento la notte si avvicina e io decido di preparare la macchina per poter dormire.

Dopo aver spostato i bagagli sui sedili davanti e preparato il mio giaciglio nel retro dell’auto mi resta ancora un po’ di luce e mi riduco a scrivere le mie ultime volontà sul retro di un volantino del supermercato. So che è morboso, ma non posso impedirmi di pensare che forse è necessario.

Distribuisco i miei pochi beni ad amici e parenti, con la clausola che la Holden sia bruciata e poi distrutta e con essa anche il mio smartphone e ogni altro aggeggio tecnologico rivelatosi inutile. Non capisco perché, ma scrivere il testamento mi mette in pace con me stesso e appena cala il buio bevo un altro goccio e poi mi stendo. Non mi ricordo nemmeno dei dingo o degli scorpioni o dei ragni: dopo pochi minuti sto dormendo come un bambino.

L’alba mi trova già sveglio e con una decisione già formata nella mente: oggi parto. E’ inutile rimanere qua che non passa nessuno: se anche qualcuno passa mi troverà lo stesso, perché la strada è una e io quella ho intenzione di seguire.

Butto nello zaino tutto ciò che mi può servire, indosso il mio cappello e, dopo aver ricontrollato per l’ennesima volta da quale parte è la città più vicina, mi incammino in quella direzione.

Prima però dò fuoco alla macchina.

Mi dico che è per creare un segnale di fumo che possa aiutarmi a farmi vedere da qualcuno, ma dentro di me so benissimo che buona parte del motivo è pura vendetta per avermi abbandonato nel mezzo del bush. Ho dovuto tirare fuori tutti i miei possedimenti terreni e nasconderli tra i pochi cespugli secchi: se mai dovessi riuscire a tornare indietro mi dispiacerebbe aver buttato via il mio intero bagaglio. Sono un ragazzo ottimista, niente da dire.

Dopo poche centinaia di metri cominciano a farsi sentire la fame e la sete che stranamente fino a quel momento mi avevano lasciato in pace. Si vede che il movimento ha svegliato tutte le sensazioni che fino ad allora erano dormienti, perché dopo nemmeno un chilometro mi rendo conto di far fatica a stare in piedi, di aver male a tutti i muscoli e di avere una sete boia.

Cominciamo bene.

Mi fermo, mi mangio una mela, bevo un po’ d’acqua e poi riparto. Mi sento subito meglio e mi rimprovero per non averlo fatto prima. Ad ogni modo ora sono in gioco e non ci si può più fermare. Mi restano poco meno di quattro litri d’acqua, una barretta e una mela. Dovranno bastarmi o sarò morto. Il pensiero mi terrorizza e allungo il passo, solo per rallentare immediatamente dopo: dovendo camminare per tutti quei chilometri devo mantenermi costante e non troppo veloce se non voglio bruciare energie per niente.

Butto il pensiero della mia morte per fame e sete nella cantina dell’oblio, insieme alla cognizione di quanto lontana è la città e insieme a tutti gli altri rigurgiti morbosi della mia mente. Non sono cose utili al momento e pensare agli animali che sbraneranno il mio cadavere non è per niente motivante.

Mi consolo ricordandomi che volendo ho anche una borraccia di urina, in caso di emergenza. Non so perché, ma come consolazione mi sembra un po’ povera.

Cammino. Ogni tanto mi giro indietro a guardare la colonna di fumo che segnala l’incendio della mia macchina, sperando che ci sia qualcun altro oltre a me che la vede. Il sole intanto va a picco, e io scelgo di fermarmi un momento all’ombra di uno di quei cespugli secchi che sono l’unica pianta che sembra crescere nel bush, a parte l’erba alta e secca e qualche raro albero, secco anche quello. Mi rifocillo, mi riposo e poi riparto.

Mi restano tre litri d’acqua e una mela.

Continuo a camminare senza fermarmi fino a quando non comincia a fare buio. Ogni tanto controllo se il telefono prende un po’ di segnale, ma non ho mai successo. A quel punto ho le piante dei piedi che bruciano come l’inferno e i muscoli delle gambe che sembrano piombo fuso. Sono stanco come non sono mai stato in tutta la mia vita, ma so benissimo di non avere fatto tanti chilometri come dovrei. La testa mi pulsa e sono disidratato. Il calore del sole mi ha prosciugato di ogni goccia di sudore. Ho provato a rimanere il più possibile senza bere, ma mi ritrovo a sera con poco più di un litro d’acqua. E la mia urina, non scordiamo la mia urina. La disperazione comincia a spadroneggiare nella mia mente, togliendomi quel poco di energia mentale che mi è rimasta.

Mi fermo dove vedo un dosso fuori della strada con alcuni cespugli. Lì distendo il sacco a pelo e mi preparo un giaciglio. So che diventerà freddo stanotte, per cui mi sono portato anche una coperta. Non mangio niente, ma bevo un altro sorso d’acqua: tengo la mela per domani mattina, quando dovrò ripartire e so che ne avrò più bisogno. Mi sento debole e non so davvero come riuscirò ad alzarmi se mi distendo ora, ma ormai non posso fare altro.

Mi siedo e sento tutte le giunture assestarsi. D’improvviso mi sento ancora più stanco di quello che sono e ho la testa che mi cade. La tiro su con uno sforzo e guardo il sole tramontare davanti a me.

Nonostante tutto lo spettacolo è bellissimo.

La sensazione di essere in uno di quei film in cui poi il protagonista muore di fame e sete e lo ritrovano mummificato anni dopo è forte. Ancora non riesco a credere che in questa fottuta strada in due giorni non sia mai passato nessuno, ma la realtà è quello che è e non si può sfuggirle.

Mi infilo nel sacco a pelo, faccio a tempo a preoccuparmi delle varie bestie che potrebbero disturbare il mio sonno per esattamente sedici secondi, poi collasso.

Mi sveglio nel cuore della notte perché mi sembra di sentire degli artigli grattare vicino a me, ma quando spalanco gli occhi nel buio e drizzo le orecchie non vedo né sento più niente. Rimango fermo, terrorizzato, nel mio giaciglio e tento di ascoltare, ma o me lo sono sognato, o qualsiasi cosa ci sia lì fuori è furba. Non respiro, ma continuo a non sentire niente. Rimango in allerta per un po’, poi la stanchezza ha il sopravvento e quando mi risveglio il sole è già alto all’orizzonte e io non sono stato sbranato da nessuno. In compenso mi ritrovo un’iguana sopra la pancia che mi sta utilizzando come sdraio e che però non appena mi muovo scappa alla velocità della luce.

Non mi sento per niente bene. Sono più debole di quanto pensavo possibile, dopo solo un giorno di cammino. Bevo un po’ e mi mangio la mela. Non mi sento assolutamente sazio e non mi sembra nemmeno di aver cominciato a spegnere la mia sete, ma mi aspetta un’altra giornata durissima e devo risparmiare almeno l’acqua.

Mi alzo con fatica, infilo le mie cose nello zaino e comincio a camminare di nuovo, senza guardarmi indietro. All’inizio è come tentare di spingere avanti un trattore a forza di braccia, ma dopo un po’ mi sciolgo e riesco a procedere un po’ più velocemente e senza troppo dolore. Le sensazioni quasi piacevoli che sento durano circa un paio d’ore, dopo le quali il bruciore ai piedi diventa quasi insopportabile, alzare le gambe è un’impresa che diventa sempre più difficile e sento che il caldo mi sta sfiancando l’anima insieme al corpo. Controllo sempre se lo smartphone prende, ma alla fine la batteria muore senza che abbia mai avuto la possibilità di chiamare aiuto. Oggi non mi fermo quando il sole arriva a picco, perché sono sicuro che non riuscirei più a rialzarmi. Vado avanti, un passo doloroso alla volta.

La prima caduta avviene verso metà giornata, credo. Non ho nemmeno i riflessi per alzare le mani e proteggermi un po’, per cui mi schianto a terra di peso e mi spacco lo zigomo su di un sasso affilato. Sono fortunato a non perdere un occhio, a dire la verità, ma questo non mi aiuta quand’è il momento di tirarmi su di nuovo e ripartire. Sento ogni parte del mio corpo protestare, mentre mi alzo faticosamente. Non ho neppure l’energia per chiamare in aiuto i Santi come farei di solito. Riparto, la mia camminata ormai ridotta ad un incespicare lento e sofferto.

So che non ce la farò mai. Il sole mi sta ammazzando, la fatica mi sta ammazzando e io ormai ho finito anche l’acqua. Mi è rimasta quel po’ di urina che ho conservato, e sebbene l’idea mi faccia schifo, so che entro sera berrò anche quella. La sete è diventata ormai un’entità vivente separata da me, che mi graffia la gola e mi fiacca il corpo e lo spirito. La fame è sparita, ma la debolezza che sento addosso non mi fa dimenticare che ho bisogno anche di cibo se voglio farcela. Ricordo un ragazzo tedesco che ha subito una fato simile al mio e che è sopravvissuto mangiando mosche. Peccato che dove sono io e in questa stagione non si vedano molti insetti mangiabili, a meno che non mi adatti a ingoiare formiche. Inoltre ormai sono troppo debole per mettermi carponi e andare in cerca di animaletti commestibili. Posso solo avanzare, un piede dietro l’altro, sperando infine di cogliere il bagliore di un’auto in avvicinamento o un segno di presenza umana nelle vicinanze. Per il momento però vedo solo terra rossa, cespugli, erba secca e la strada che si snoda davanti a me, infinita.

La seconda caduta avviene quando ormai è pieno pomeriggio. Il calore sembra ancora più grande di ieri e la mia testa pulsa come un dente malato nonostante il cappello. Quando cado stavolta so che non mi rialzerò. Mi trascino sul bordo della strada e rimango lì. Non ho energia di fare altro. Aspetto un po’ per riposare, poi riesco a estrarre la borraccia dallo zaino e riesco a bermi un goccio. Mi sforzo di non pensare a cosa sto bevendo, di non prestare attenzione al sapore. Ingoio e basta. Nonostante tutto, lo schifo mi fa rischiare di vomitare, ma alla fine tengo tutto dentro. Ne ho bisogno e anche il mio stomaco si deve rassegnare.

Rimango lì disteso e dopo un po’ gli occhi mi si chiudono. Quando li riapro è notte e sto morendo di freddo. Trovo le energie per tirare fuori il sacco a pelo, ma non riesco a spostarmi, per cui mi ci infilo dentro e mi metto sopra la coperta.

Riprendo sonno.

Mi risveglio e c’è uno spicchio di luna che mi osserva dall’alto. Non getta molta luce, per cui non capisco perché mi sia svegliato. Poi una leggera brezza mi porta alle orecchie il rumore di zoccoli sulla ghiaia che ha fatto breccia nel mio sfinimento. Alzo la testa e vedo venire verso di me un cavallo bianco, senza cavaliere e senza sella. Sta trottando sulla strada come se stesse facendo una passeggiata, e mi passa a fianco senza prestarmi attenzione. L’apparizione ha qualcosa di onirico, e non capisco se io sia davvero sveglio o se stia sognando. Giro la testa per guardarlo ed è troppo tardi: è già sparito e sento solo il rumore degli zoccoli svanire piano piano. Sono inquieto e non capisco che sta succedendo, ma ancora una volta la stanchezza mi vince e dopo poco ripiombo a dormire.

Quando spalanco gli occhi un’altra volta c’è un uomo accucciato che mi sta fissando. E’ l’alba e non riesco a vederlo bene perché ha il sole nascente alle spalle. Non gli scorgo la faccia, ma noto che ha un cappello simile al mio, dei jeans e un paio di stivali di coccodrillo. Quando vede che mi sono svegliato si alza e si gira verso la strada. Vedo ora che indossa una camicia e che sopra ha un gilet che sembra anche quello in pelle di coccodrillo. E’ alto e magro e quando si volta di nuovo verso di me scopro che è Crocodile Dundee. A questo punto sono sicuro di stare sognando o di avere le allucinazioni. Forse sto morendo, e questa apparizione non è altro che il mio Caronte, venuto a prendermi per traghettarmi negli Inferi. In ogni caso capisco che tutto questo non è reale.

Gracchio:

– Tutto questo non è reale. –

Lui sorride:

– Credi quello che vuoi. Ora però devo fare una telefonata. –

Tento di tirarmi su, ma riesco a malapena a spostarmi. So che è assurdo, ma voglio dire a ciò che so essere un parto della mia fantasia che non c’è campo e che è inutile anche solo provare a telefonare. Poi lo vedo estrarre da dentro il gilet un listello di legno intagliato legato a qualche metro di filo e mi viene da ridere, anche se non riesco ad emettere più di uno sbuffo. Sto per vivere la scena di un film.

Crocodile Dundee inizia a farsi girare sopra la testa il listello di legno, come fosse un lazo, e questo inizia ad emettere un suono che sembra il ronzio di milioni di api. L’uomo (l’allucinazione) cambia continuamente velocità, facendo così cambiare anche il suono. Cambia spesso anche la direzione in cui gira il lazo e va avanti così per una decina di minuti. Poi si volta di nuovo verso di me e dice:

– Andrà tutto bene. –

Si incammina nella stessa direzione in cui era andato anche il cavallo e scompare alla mia vista in pochi secondi.

Io ormai ho cominciato a fregarmene di capire se la sua presenza fosse reale o meno e ho iniziato a districarmi dal sacco a pelo. E’ troppo caldo per rimanere lì dentro, e io non ce la faccio più, nonostante le mie energie siano a malapena sufficienti a trascinarmi fuori da lì. Provo poi ad alzarmi in piedi e a ricominciare a camminare, lasciando dove sono tutte le mie cose a parte la borraccia. Non riesco a fare molta strada prima di cadere di nuovo. Mi rialzo, bevo tutto quello che mi resta e getto via il contenitore. Mi sento un po’ più forte e riparto. Dopo poche centinaia di metri cado di nuovo. Mi rialzo. Cado immediatamente. Striscio, ma non mi fermo. Ad un certo punto però svengo. Quando mi riprendo decido che è meglio se mi riposo un po’ prima di ripartire. Mi trascino alla poca ombra offerta da un cespuglio e lì collasso nuovamente. Non avrei mai pensato di poter diventare così debole in così poco tempo, ma qui il sole e il caldo sono davvero qualcosa di così potente da uccidere, come sto per scoprire a mie spese.

Da quel momento in poi la mia coscienza va e viene e io non capisco quando quello che vedo è reale e quando è fantasia.

Apro gli occhi e c’è ancora il sole. Un canguro passa a pochi metri da me, si ferma a guardarmi, poi riprende a saltellare per la sua strada. Chiudo gli occhi.

La volta seguente in cui apro gli occhi c’è un altro uomo accucciato davanti a me che mi guarda. Non è né alto, né biondo ed è anche praticamente nudo. E’ un aborigeno, uno di quelli veri, non di quelli rovinati dalla civilizzazione e che vedi ubriachi in giro per le città. Questo è proprio uno degli abitanti originali della Terra di Oz, e mi sta guardando impassibile, senza dirmi niente né toccarmi. Io non so se si tratti di un’altra allucinazione o di un essere umano reale, ma riesco a gracchiare qualcosa chiedendogli aiuto. Lui non si muove e continua a guardarmi per un po’. Io faccio per alzarmi e nel momento in cui mi tiro su sui gomiti svengo ancora.

Quando li riapro sono solo ed è buio. Sento di nuovo rumore di zoccoli e vedo di nuovo venirmi incontro il cavallo bianco dell’altra notte. Questa volta si ferma vicino a me e io ho la tentazione di alzarmi e provare a montargli in groppa, per farmi portare via. Riesco perfino a venire in piedi e a inciampare verso di lui, ma poi lui si sposta e comincia a trottare via da me. Io sono disperato, provo ad abbozzare due passi di corsa e tento di gridargli di fermarsi, ma ho la gola troppo secca e comunque lui non si ferma, mentre io sono costretto a farlo, senza fiato e con le gambe che tremano come alberi in una tempesta. Non voglio cadere di nuovo, per cui mi accascio di mia spontanea volontà, prima che sia il mio corpo a cedere e io rischi di spaccarmi di nuovo la faccia. Piango un po’, anche se lo faccio senza versare lacrime, visto che non ho più abbastanza liquidi nel corpo.

Questa volta neanche mi accorgo di essere collassato. So solo che sbatto le palpebre e quando tornano su è giorno splendente di nuovo, io sono disteso ancora nel mezzo della strada e c’è un elicottero che sta scendendo vicino a me. La polvere e il rumore sono assordanti e io ormai sono così debole che non ho nemmeno la forza di sperare che siano davvero arrivati i soccorsi, e men che meno di provare ad alzarmi. Quando sento che il motore si sta spegnendo giro piano la testa verso il velivolo e strizzo gli occhi per vedere chi sta scendendo. Sono due uomini in jeans e camicia e cappello alla texana.

– Ehi ragazzo, sei vivo? Come stai? Parlami… –

Io non riesco a dire niente di intellegibile, ma faccio il mio solito verso simile a un corvo e provo ad alzare una mano. Quello che ha parlato si gira verso l’altro e gli dice:

– Vai a prendere l’acqua nell’elicottero! Presto! –

Il secondo texano parte e io resto solo con il primo uomo.

– Stai tranquillo, ragazzo, adesso ti portiamo via noi. –

Non sono ancora convinto che quello che vedo sia reale, ma non importa. Adesso mi berrò un po’ d’acqua, e che sia un’allucinazione o no la sensazione sarà paradisiaca, e tanto mi basta.

Svengo per l’ultima volta.

A quanto pare i due cowboy (John e Matt, scoprirò più tardi) hanno incontrato per la prima volta nella loro vita un aborigeno, mentre pascolavano le loro vacche nelle immense distese della loro terra. Quest’uomo li ha avvicinati, comparendo dal nulla nel bel mezzo del bush. Loro all’inizio hanno quasi preso paura, poi l’aborigeno ha iniziato a parlare, in un inglese masticato e mischiato a parole in un’altra lingua. Non sono riusciti a capire molto, anche perché probabilmente usava delle parole poco corrette (sembrava stesse dicendo che aveva ricevuto una telefonata che lo ha avvisato che c’era qualcuno nei guai, mi dirà John ridendo), ma una cosa sembrava certa: c’era un disgraziato disperso nel bush che aveva bisogno di loro. L’aborigeno è riuscito bene o male a spiegargli dove mi trovavo e, mentre loro iniziavano a discutere su come fosse meglio procedere per la ricerca, è sparito di nuovo come era comparso, lasciandoli a bocca aperta.

Per venirmi a cercare prendono l’elicottero che di solito usano per pascolare le vacche negli appezzamenti di terra più estesi, e dopo poco più di mezz’ora di volo mi intravedono in mezzo alla strada e scendono a prendermi. Se fossi rimasto all’ombra di uno dei cespugli non sarebbero mai riusciti a trovarmi, ma per fortuna quella notte mi sono spostato per tentare di prendere il cavallo e sono collassato dove era più facile scorgermi.

Dopo che mi sarò un po’ ripreso riuscirò a chiedergli se quell’animale poteva essere uno dei loro, ma la possibilità viene esclusa subito, visto che tutti i cavalli in loro possesso sono marroni o neri, e comunque sono tenuti a centinaia di chilometri da dove mi trovavo io. Probabilmente quindi si trattava di un’allucinazione, ma di sicuro non mi dispiace averla avuta, visto che è stato grazie a lui se sono stato avvistato.

Alla fine di tutto, dopo essere rimasto in ospedale due giorni, riesco perfino a recuperare i miei bagagli. Il laptop su cui sto scrivendo ora è quello sopravvissuto (anche se un po’ acciaccato) a questa avventura. La macchina invece è perduta e l’assicurazione si è rifiutata ovviamente di ripagarmela, visto che l’incendio l’ho appiccato io.

Non ho ancora raccontato di Crocodile Dundee a nessuno: so che sarebbe preso anche lui per un’allucinazione. Quello che ho visto io sembrava proprio lui, ma “lui” è un attore che oggi ha più di settant’anni, mentre l’uomo che ha fatto la cosiddetta telefonata non avrà avuto più di quarant’anni. Non so cosa pensare e ad un certo punto posso anche dire che non mi interessa. Che fosse reale o meno non è importante: lo è stato quanto basta da salvarmi le chiappe.

Lascio un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *