Il vero backpacker

Photo by Jo Christian Oterhals

Photo by Jo Christian Oterhals

Premessa: non odio i backpackers e in verità di solito mi trovo anche bene con loro, quando li incontro individualmente. In più, volente o nolente, mi è capitato e mi capiterà di esserlo anch’io, per cui non posso assolutamente odiarli. La mia riflessione è relativa più che altro alla figura generale di questo personaggio, che ha un’aura romantica assolutamente non meritata.

Nel Regno di Oz vive una specie animale che è diffusa anche nel resto del mondo, ma che qui ha delle caratteristiche specifiche di questa terra. Sto parlando dei backpackers, che sono letteralmente coloro che viaggiano con lo zaino in spalla, anche se poi la realtà è spesso diversa. Il termine indica in genere i giovani (di qualsiasi parte del mondo) che si spostano da un luogo all’altro di questo continente visitando, facendo festa e lavoricchiando. L’ordine di importanza di queste tre cose varia da persona a persona, ovviamente, ma per ora vorrei parlarvi di quello che è il vero backpacker, sfatando un po’ alcuni miti su questa figura.

Cominciamo.

Il mezzo di trasporto più comune di un vero backpacker è una vecchia Holden Commodore station wagon dal colore bianco sporco o viola sporco. Non ci sono vie di mezzo tra queste due possibilità. Unica alternativa valida è un furgone van scassato di almeno vent’anni, che deve essere bianco (all’inizio, almeno, prima di passare per i deserti di terra rossa) o al massimo ricoperto di graffiti simil-artistici. Una bandiera dei pirati che copra tutto il vetro posteriore è opzionale, ma ben accetta. L’importante è avere la possibilità di poter dormirci dentro, anche se conosco un paio di svedesi che per mesi hanno utilizzato una berlina per viaggiare.

Un famoso proverbio dice che Dio ha un occhio di riguardo nel proteggere bambini e ubriachi: posso affermare senza timore di smentita che all’interno di questo gruppo ci sono di sicuro anche i backpackers. Questa gente compra il proprio mezzo e parte per girare tutta la terra di Oz senza preoccuparsi di niente, a parte che la radio sia funzionante. Parole come assicurazione, olio motore, ruota di scorta e simili gli sono sconosciute. Eppure non senti mai di ragazzi sperduti nel deserto o ridotti a vagabondare a piedi fino a che non vengono soccorsi. I loro mezzi sembrano durare giusto il tempo per portarli al di fuori delle terre pericolose, quelle in cui per centinaia di chilometri procedi senza incontrare nessuno, per poi eventualmente collassare a lato della strada quando ormai sono in città e un meccanico è a portata di telefono.

Ora che ricordo in effetti ad un tedesco è capitato di finire in avaria nel deserto. Si è salvato, per fortuna: era la stagione giusta ed è potuto sopravvivere mangiando mosche.

Anche fuori dal suo mezzo il vero backpacker lo vedi da lontano. Si sposta in piccoli branchi di due o tre persone, che a volte possono arrivare fino a cinque o sei. Ha vent’anni o poco più, la barba lunga e i capelli che gli scendono a coprirgli gli occhi. I rasta sono spesso presenti, ma in ogni caso basta che siano sporchi e spettinati. Se lo vedi prima di mezzogiorno avrà il viso sconvolto e si muoverà con estrema cautela, poiché sta tentando di sopravvivere ai postumi di quello che ha fatto la notte prima. E’ magro come un fachiro e ha i piedi nudi, o al massimo indossa un paio di scarpe da ginnastica luride. La sua divisa ufficiale è una giacca della tuta (sporca) se fa freddo, sennò una t-shirt e un paio di pantaloni larghi (sporchi anche quelli). E’ un gradino al di sopra dei barboni, a ben vedere, e la sua concezione di igiene farebbe venire da vomitare a qualsiasi essere pensante del globo terracqueo. Il suo sistema immunitario ha comunque una potenza paragonabile a quella di una corazzata, e grazie ad esso può permettersi di camminare a piedi nudi anche nei bagni pubblici più luridi dell’universo e cibarsi di qualsiasi cosa. La cucina utilizzata da dei backpackers assomiglia molto alle toilette di cui si parlava prima, infatti, e qualsiasi persona sana di mente volesse utilizzarla dovrebbe prima disinfettarla col plutonio.

Ovviamente, a parte il discorso sulla barba lunga, questa descrizione è perfettamente valida sia per la versione maschile che per quella femminile del vero backpacker.

Le informazioni più importanti per questi ragazzi sono nell’ordine:
– quali sono i posti più fighi dove andare e come viverci a poco prezzo;
– dove procurarsi roba a poco prezzo;
– dove procurarsi alcol a poco prezzo;
– dove procurarsi cibo a poco prezzo: qui la parte del campione la giocano i vari MacDonald’s, Burger King, Hungry Jack’s e così via;
– dove procurarsi lavoretti con cui mantenere le cose di cui sopra ed eventualmente la benzina per la macchina.

L’affidabilità dei backpackers è notoria però in tutta la terra di Oz: molte offerte di lavoro presentano in grande una scritta all’inizio in cui si precisa che non sono aperte a nessuno di loro. Trovarti senza personale perché ‘sta gente se ne va dalla sera alla mattina senza avvertire o perché si comporta in maniera ignobile è molto comune, e per questo motivo c’è ora una certa tendenza a eliminare le loro candidature in partenza. Che questo rovini poi il campo a gente più seria che cerca davvero un buon lavoro è un altro discorso che non approfondiremo qua, altrimenti mi sale il nervoso.

La razza dei backpackers presente nel Regno di Oz ha anche la particolarità di seguire dei percorsi migratori stagionali abbastanza fissi, seguendo la stagione calda ed evitando quella fredda su e giù per il continente, e seguendo anche le possibilità di lavoro nell’agricoltura e nel campo dell’hospitality, cioè per camerieri, lavapiatti e servizi di pulizie. Non è strano incrociare in un punto del Paese persone incontrate per caso tre mesi prima in un altro luogo a migliaia di chilometri da lì. Questo è aiutato anche dal fatto che le città predilette sono sempre le stesse e in ognuna di esse ci sono degli ostelli che sono i punti di incontro tipici dei ragazzi in viaggio. Alcuni di questi sono dei posti decenti, altri richiederebbero l’intervento di Mary Poppins in tenuta da guerra e lanciafiamme.

Il tipico ostello per veri backpackers ha camerate miste da sei o otto persone, alle cui finestre sono appesi vestiti e scarpe. Alcuni vetri sono rotti, il che comunque aiuta la sopravvivenza, visto che l’odore emanato dai corpi e dagli abiti di questi viaggiatori rischia seriamente di far trovare tutti morti dopo una notte di sonno insieme. La cucina, come si diceva prima, sembra l’incubo di un ispettore dell’Igiene Pubblica. Ci sono residui di cibo in cui i batteri ormai sono cresciuti così tanto da essere pronti per andare all’università, mentre il frigo contiene confezioni di latte che ormai ha già passato la fase yogurt e si avvia a diventare Parmigiano Reggiano. Qualche proprietario di buona volontà fornisce anche del detersivo per piatti, che comunque viene usato più per fare le bolle di sapone che per lavare le stoviglie. In ogni caso il rischio di tetano, peste bubbonica e colera è sempre dietro l’angolo. E con questo intendo proprio dietro l’angolo del tostapane o del bollitore incrostati di calcare e ruggine, non molto lontano dai contenitori di posate con la muffa all’interno che oramai si sta evolvendo verso una nuova specie.

In questi luoghi ameni ci sono sempre dei bar con alcolici a poco prezzo e in cui la musica viene sparata a pieno volume dalla mattina alla sera. Questo mette a rischio la sopravvivenza dei poveri disgraziati in preda a postumi da sbronza, ma da quel che ho potuto vedere la soluzione è sempre in fondo ad un’altra bottiglia di birra.

Il lato a tutti gli effetti positivo di questi luoghi è che incontri gente da ogni parte del mondo, con esperienze e vissuti a volte molto interessanti, con storie da raccontare, e con cui nel giro di una serata possono nascere amicizie bellissime.

E’ probabilmente anche l’unico lato positivo.

Questi ostelli sono considerati dai giovani il baluardo dei loro viaggi a basso budget, ma in verità succhiano il sangue dei backpackers peggio di un vampiro dopo secoli di digiuno. In particolare quelli che fanno da tramite per i lavori nelle aziende agricole riescono ad instaurare una sorta di oligopolio nelle loro zone di competenza che costringe chi vuole lavorare nei campi ad alloggiare lì pur di avere un’occupazione. Altri invece, in certi luoghi turistici, sono l’unica alternativa all’affitto di una casa vera a propria, per cui stabiliscono tariffe altissime anche solo per poter dormire in camerata. Tanto va da così ad andare a dormire in spiaggia e lo sanno.

I backpackers, bisogna essere sinceri, sono spesso pronti ad atti di solidarietà tra di loro. Questo significa passarsi informazioni e consigli per i luoghi dove andare, i posti dove alloggiare, dove e come trovare lavoro. Significa anche aiutarsi se l’auto va in avaria durante il viaggio, dare passaggi ad autostoppisti disperati e così via. D’altra parte ce ne sono anche alcuni che non vedono l’ora di fregare il collega backpacker, vendendogli una macchina sul punto di esplodere o collassare, facendo finta di pagare qualcosa e invece rubandola, e così via.

Stupisce che io mi rifiuti nella maniera più assoluta di essere definito un backpacker?

Sì, ho viaggiato e viaggio tuttora.

Sì, ho lo zaino sulle spalle.

No, non vado a piedi nudi nei bagni pubblici, mi piace lavarmi spesso e vivere e mangiare in posti puliti. Non mi piace stare in ostello e non sopporto di essere sempre in mezzo alla gente; in più non intendo il viaggio come una successione di feste alcoliche in posti sempre diversi e di cui non ricorderò niente la mattina dopo.

Mi piace vedere e vivere in tanti luoghi. Mi piace conoscere. Mi piace incontrare gente. Mi piace crearmi una vita (per quanto breve) nei posti in cui vado e poter godermeli come un indigeno, non come un turista. Mi piace anche fare festa, ma mi piace ricordarmi cosa è successo e poter assaporarne la memoria quando voglio.

No, io non sono un backpacker. Sono un viaggiatore.

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