Il Serial Killer delle Tibie – pt. II

Appena lo sento il giorno dopo, Carlos sembra di buonumore, per cui gli riferisco i miei progressi e gli dico che ho bisogno di parlare con suo padre. Come immaginavo, inizialmente si mostra riluttante, ma poi acconsente a mettermi in contatto con Esteban, che mi accorda un appuntamento la sera stessa.

Quando mi presento all’indirizzo di Esteban Delgado non rimango stupito nel vedere un palazzone signorile ergersi davanti ai miei occhi. Quando suono mi risponde però un maggiordomo, e questo sì che un po’ mi sorprende. Non so se siamo a livello Bruce Wayne, ma di sicuro non siamo al livello di un comune imprenditore. Prendo nota di impegnarmi in questo caso per fatturare più ore possibili, naturalmente.

La seconda cosa che non mi stupisce della serata è che papà Delgado mi sta sulle palle tanto quanto il figlio. I geni dell’arroganza e della stronzaggine scorrono forti in loro, giusto per parafrasare un vecchio film del mio passato da nerd.

– Entro le nove e mezza dobbiamo aver finito: alle nove e quarantacinque ho un altro impegno e voglio essere collegato su Skype per tempo. Tutto chiaro? –

Guardo l’ora: sono le otto e quarantacinque.

– Non si preoccupi, entro le nove e trenta sarò fuori di qui. –

– Si prenda un drink, se vuole, e si accomodi, poi mi chieda quello che deve. Le dico già che non l’ho riconosciuto, non ho visto segni particolari e la voce era contraffatta. –

Siamo in un salotto che sembra uscito da uno di quei libri in cui il vecchio gentleman (in carrozzella, non in poltrona) sorseggia un whisky, attorniato da una biblioteca di libri con la copertina rossa e blu (che non avrà mai letto in vita sua), e un focolare acceso in disparte.

Qui di caminetti non se vedono, ma c’è il mobile bar con le bottiglie in vetro trasparente, i bicchieri da liquore e tutto il resto. Per fare scena faccio finta di esaminarle e chiedo quale sia il whisky. Me ne verso un dito e passo il resto del tempo a fingere di sorseggiarlo, trattenendo i conati ogni volta che mi arriva una zaffata dal bicchiere. Io e i superalcolici non andiamo molto d’accordo, ma con questo è ancora peggio.

Tra un picco di nausea e l’altro continuo comunque a fare il mio lavoro e ripercorro la serata un passo alla volta con Esteban Delgado, scoprendo solo che c’è poco da scoprire. Non mi dice nulla di più di quello che mi ha detto il figlio, ma almeno riesco a farmi dare il nome dei suoi amici, compreso di quello che lo ha trovato.

– Ma quindi non ha la minima idea di chi potrebbe avercela con lei così tanto da farle questo? –

– Sono un rispettabile membro della società e non ho mai fatto nulla di male nella mia vita. Certo che non ne ho idea! –

Sebbene da quel che so solo l’ultima parte di quella frase è vera e il resto mi sembra un testo imparato a memoria, penso sia vero che non sa niente. Però non mollo: non si sa mai.

– Magari nel suo passato, anche lontano, ha fatto qualcosa che per qualcuno può essere stato visto come “male”? Magari un’offesa non voluta, o un errore che qualcuno possa aver percepito in maniera sbagliata, un comportamento, un fraintendimento? –

Non ho molta speranza che davvero mi dica qualcosa, ma ci provo, e stavolta lui sembra anche rifletterci seriamente.

– Quando fai il mio lavoro, quando ti dai da fare per creare lavoro per gli altri, è inevitabile pestare qualche piede, fare qualche errore, assumere comportamenti che qualcuno potrebbe non approvare. Ma è parte del gioco, e non è mai stato nulla di più. Niente per cui uno dovrebbe volermi attaccare così. –

Poi, come ricordandosi di essere uno stronzo:

– E poi è il suo lavoro scoprire chi è stato, mica posso dirle io chi mi odia a tal punto da spezzarmi o farmi spezzare le gambe. –

Annuisco.

– Certamente, infatti ora procederò con le indagini. Non posso però non chiederle questi dettagli, sarebbe incuria da parte mia. –

È il suo turno di annuire, stranamente. Forse è stato colpito dall’uso della parola “incuria”, buttata lì con nonchalance. O forse ha visto l’ora.

– Certo certo. Comunque sono le nove e venticinque e direi che è il momento di salutarci. –

– Assolutamente. Grazie del suo tempo, signor Delgado. – E poi, come tutti i migliori detective della TV. – Ho tutti gli elementi di cui ho bisogno. –

– Cioè sa già chi è stato? – esclama subito lui.

– No no, cioè, è un modo di dire. Intendo che ho saputo da lei quello che mi serviva e ora posso continuare la mia indagine. –

– Va bene, va bene. Allora buona serata e arrivederci . –

Preso un po’ di contropiede, saluto anch’io e me ne vado. La simpatia non è certo un dono di famiglia.

Approfitto dell’ora non troppo tarda per fermarmi a bere qualcosa di decente e non quei whisky da ricconi che fanno vomitare. Scelgo, visto che sono in zona, proprio il bar che frequentava normalmente il nostro Esteban.

Quello che mi trovo davanti è l’opposto di quanto mi aspettavo da un signorotto come quello che ho appena lasciato nel suo palazzone. L’Eden è un buco rivestito di legno vecchio, impestato di puzza di alcol e fumo di vecchie sigarette. Ci sono due o tre sgabelli malconci al bancone (che tanto tempo fa forse era di un bel marrone lucido) e qualche tavolino risalente all’epoca dei barbari.

Nient’altro.

Anche il barista pare risalente all’epoca dei barbari, ed è malconcio quanto il resto del locale. Quando mi vede entrare non ha lo sguardo amichevole di uno che accoglie un nuovo cliente, ma quello di uno che ha appena visto entrare in casa la suocera. Io mi siedo su uno dei pochi sgabelli e ordino una birra che, sorprendentemente, è anche buona.

Sorseggio con calma e intanto mi guardo intorno. Oltre a me c’è un altro avventore al banco e altri due ad un tavolino. Questi ogni tanto scambiano due parole, ma in generale l’atmosfera è pesante e la concentrazione di tutti sembra puntata solo sul drink di fronte a loro. Il barista finge di lucidare bicchieri, ma ogni tanto ha anche lui il suo beveraggio a cui attingere.

Ora o mai più.

– Mi risulta che qualche giorno fa uno dei vostri clienti sia stato aggredito, qui vicino. –

Il mio interlocutore fa inizialmente finta di non avermi sentito, poi alza gli occhi dal suo bicchiere e mi vede che lo fisso.

– Mmm. –

– Conosco Esteban, sa? Esco ora da casa sua, a dire la verità. –

Qualcosa cambia nell’atteggiamento del barista, impercettibilmente, ma a sufficienza perché si degni di rispondermi.

– È un amico di famiglia? –

– Non mi definirei così, ma diciamo che in questo periodo sono molto vicino a lui e al figlio Carlos. –

Forse sparare nomi “famosi” non sempre funziona, ma in questo caso fingere di essere uno di casa per i Delgado è utile. Per ora non voglio dire di essere un investigatore, vediamo cosa succede.

– In effetti è stato davvero un colpo anche per noi, sentire di un attacco simile, e senza senso. Esteban ha fatto tanto bene, nella sua vita, e non se lo meritava. –

– Sì, vero, a parte qualche macchiolina nel suo passato… –

– Chi si dà da fare per creare qualcosa, si trova sempre di fronte a decisioni difficili! –

Il barista si è irrigidito di nuovo alla mia battuta, ma vedo di rabbonirlo.

– Sì sì, appunto. Sono anche io uno di quelli che ha beneficiato della gentilezza di Esteban. E infatti mi chiedevo chi mai potrebbe volergli fare così del male. Pensavo al suo passato perché so – e gli faccio l’occhiolino – alcune storie, e mi immagino che siano le uniche che possano portargli questo tipo di ripercussioni, adesso. –

Il barista sembra rabbonito, ma anche no.

– E lei com’è in rapporto con Esteban? Non l’ho mai vista qui con i suoi amici. –

– Io tengo un profilo più basso, capisce? Non mi si vede molto in giro. Oggi ero da lui e poi mi sono detto: Perché non andare a bermi una birretta di quelle che Esteban dice sempre quanto sono buone?

Capisco subito di aver commesso un errore dal linguaggio del corpo del barista.

– Esteban non ha mai bevuto birra in vita sua. Qui poi, solo liquori di alta qualità. –

È inutile che continui a far finta di niente.

– Mi scusi, – e tiro fuori il tesserino da detective privato – non mi sono presentato. Mi chiamo Argo Dupont, e sto investigando su quello che è successo al signor Delgado, dietro sua esplicita richiesta. –

Non nomino il figlio perché penso che a questo interessi meno di niente di Carlos: mi dovrò tenere un po’ “largo” in quello che dico, ma non sarà del tutto una bugia.

– Sul serio? Non era in mano alla polizia, la questione? –

– Diciamo che la famiglia Delgado non ha fiducia che stia proseguendo nella giusta direzione e ha preferito assoldare un aiuto esterno. –

Qualcosa sembra scattare nel barista, come se quello che dico si incastrasse perfettamente con quello che sa lui e decidesse d’improvviso di fidarsi. Mi sorride, perfino, anche se avrei preferito non vedere lo stato dei suoi denti.

– Perché non l’ha detto subito? Io sono Antonio, – e mi porge la mano. Io gliela stringo, sorridendo e segnando un appunto mentale di non toccarmi più con la mano destra fino a che non l’avrò lavata con la candeggina.

Quello che scopro a partire da quel momento, nel corso della mezz’ora più fitta di parole della mia vita, è tutta la storia di Antonio il barista e, per fortuna, un bel po’ di quella di Esteban Delgado. A quanto pare quel bar era stato salvato dallo sfratto proprio da lui, alcuni anni prima, perché potesse rimanere aperto e lui potesse andare a fare la sua passeggiata settimanale e trovarsi coi suoi amici. E perché, sotto tutta la polvere e il vecchiume, tenesse dei liquori di un certo livello a disposizione per quando arrivavano.

Antonio mi racconta tutto questo in mezzo alla storia delle sue disgrazie (molte) e delle sue fortune (molte meno). Mi è utile però per imparare qualcos’altro su Delgado, per cui ascolto con attenzione, riservandomi poi di controllare con il mio contatto in polizia un po’ di cosette.

Quello che ne esce è comunque il ritratto di uno che si è dato da fare nella vita e che ha raggiunto quello che si meritava, grazie al suo impegno. Se poi ha dovuto pestare qualche piede o interpretare la legge in modo “flessibile”, fa tutto parte della sua grande storia di self made man. Ai miei tentativi di capire precisamente quali piedi avesse pestato e come avesse interpretato la legge per i suoi scopi non ho risposta, però. Sarà qualcosa che dovrò scoprire da solo.

Ciò che è invece interessante sono gli amici con cui Esteban si ritrova e il motivo di quelle rimpatriate periodiche in un luogo così al di sotto dei suoi standard. A quanto pare ognuno di loro è ora un uomo di successo, ma vengono tutti dallo stesso quartiere povero da cui si sono affrancati a forza di unghie e denti. La mia mente parte già a costruire castelli in aria di cosche mafiose, di “famigghia” e di vendette, ma vengo bloccato sul nascere. Il gruppo è di cinque amici, ma il loro successo non è del tipo di quello di Esteban: uno è un insegnante all’università, uno un manager di azienda, uno un dottore e l’altro un avvocato. A parte quest’ultimo, non sembrano tipi da mafia, anche se dovrò naturalmente controllare. Sembrano quello che dice il barista: un gruppo di amici rimasto legato dall’infanzia. È qui che Antonio mi esibisce un pezzo di approfondimento psicologico da far invidia a Freud.

– Mi rendo conto che sembri strano che vengano qui, in questo posto che sembra l’ultimo in cui verrebbero anche se stessero morendo di sete. E ancora più strano che il signor Delgado mi abbia salvato dallo sfratto e mi abbia permesso di rimanere qui, a lavorare come prima. Questo non è il loro vecchio quartiere, per cui non è la nostalgia. Io credo che sia perché ritrovarsi con i suoi amici di quando era giovane e affamato, in un posto in cui sarebbe potuto finire a devastarsi il fegato appoggiato ogni giorno al bancone come un fallito, gli serva da promemoria. Credo serva a tutti loro. –

– Promemoria di cosa? –

– Di quello che devono evitare. Della fame che devono continuare ad avere, se vogliono mantenersi sempre un passo avanti. Di non diventare compiacenti per non rischiare di perdere tutto e ritrovarsi a tornare indietro, a quando erano ancora dei perdenti. Ecco, questo posto gli serve per ricordarsi lo schifo in cui non vogliono assolutamente ripiombare. –

E mi sorride, e io posso avvertire chiaramente il dolore che si nasconde dietro a quel sorriso. Il dolore nel rendersi conto ogni giorno che lui invece è uno di quei perdenti che non ce l’ha fatta, e che finirà la sua esistenza lì, dietro al bancone invece che davanti, ma intrappolato lo stesso in una vita sempre più in discesa.

Sorrido a mia volta, mentre un eco di ciò che prova risuona in me. Risuonerebbe molto più forte, se perdessi tempo a riflettere di più sulle cose, ma decido come sempre che nella vita è meglio proseguire senza fare troppa autoanalisi. Mi deprimerebbe troppo.

Finisco di chiacchierare con lui, bevendomi una seconda birra, poi lo saluto e me ne vado.

È il momento di risentire Erica.

– Non è che adesso perché fai lo sbruffone e hai il “contatto in polizia”, puoi chiamarmi quando cazzo vuoi, eh. Non è come nei film che la gente è là che aspetta te per dirti le cose e non ha una vita, non ha impegni, non si va a bere robe al bar con gli amici. Devi rispettare il tempo degli altri, sennò te ne puoi anche andare a ‘fanculo. –

Mi sa che ho beccato Erica in un brutto momento.

– Scusami, Erica. Non ho nemmeno guardato l’ora e so che anche tu sei un po’ una nottambula come me. Ti ho beccata in un brutto momento, con qualcuno? Sai che non è obbligatorio che tu mi risponda al telefono, se non vuoi… –

– Non è questo il punto. Il punto è… darsi degli orari, ok? –

– Sì sì, scusami, ti lascio alla tua serata e ci sentiamo dom… –

– No no, ormai mi hai svegliato e amen. Adesso aspetti che mi riprenda un secondo e poi ti dico. È che ero collassata sul divano e mi hai fatto venire un colpo. –

– Ah, ma allora non sei in compagnia… –

– No, ma potevo esserlo, chi lo sa! E per questo non devi chiamare a caso. Dov’è andata a finire la buona abitudine del messaggino pre-chiamata per chiedere se una è disponibile? –

– Va bene, va bene, scusami. Prossima volta non lo faccio più, ok? E ti scrivo prima, ok? –

– Meglio. Ora aspetta che mi tiro fuori gli appunti e ti dico. –

Sento un po’ di casino, un rimestare di fogli, qualcosa che cade, un paio di imprecazioni e poi Erica torna al telefono e un pochino sembra anche più tranquilla, anzi quasi eccitata.

– Allora, la cosa si è fatta molto interessante e mi sa che qui se non ci scappa un bonus per me potrei anche offendermi. –

– Intanto dimmi, poi in caso il bonus me lo faccio dare direttamente dal cliente. Io ormai sono a secco come una bottiglia di liquore a casa tua. –

– Simpaticone. Sappi che mi sono data una regolata… –

– Ne sono felice. Ora dimmi quello che hai scovato che sono curioso, però. –

– Quello che ho scoperto è che nessuno di loro ha niente in comune. Cioè, qualcosa magari, tipo che tre o quattro sono sposati e con figli, oppure che molti sono liberi professionisti, ma niente di utile a noi. –

Io lo sento il sorriso nella sua voce, ma decido di stare al suo gioco per darle soddisfazione.

– Sì, ma allora non c’è niente che mi serva in tutto questo. –

– E invece sì. Quello che ho scoperto infatti è che molti di loro sono stati multati o segnalati per violazioni legate ai rifiuti. Il tuo amico Delgado, per esempio, è stato denunciato perché bruciava residui di difficile smaltimento dietro alla sua fabbrica di materiali per l’edilizia. Un altro è stato segnalato perché non ha mai pagato la tassa sull’immondizia: prendeva l’auto e girava per i paesi limitrofi al suo e buttava sacchetti di rifiuti dentro i fossi. Altri invece magari con la loro azienda hanno sversato schifezze nei fiumi o inquinato falde acquifere per decenni… –

– Cioè mi stai dicendo che secondo te questo tipo è una sorta di “vendicatore ecologista”? –

– Io non ti sto dicendo niente, ti sto solo mostrando qual è l’unico minimo denominatore comune. Anzi, uno dei due, perché l’altro è ancora più gustoso. –

– Ti sento che gongoli, dai, dimmi. –

– Nessuno di loro è stato condannato, alla fine. Segnalati, denunciati, processati magari, ma tutti in un modo o nell’altro ne sono usciti puliti. –

– Corruzione? –

– Ma sì. O semplicemente prove troppo deboli, testimoni che non sono più sicuri, reati che cadono in prescrizione. Le solite cose. Quel che resta, di base, è che l’hanno fatta franca. –

Mi zittisco un attimo, poi ripeto, tra me e me:

– Un vendicatore ecologista. –

E non ci credo neppure io che lo so dicendo.

– Mi sembra una puttanata. –

– Non so come stiano le cose. Io ti dico solo quello che ho trovato. A parte questo poi, le uniche cose simili sono le modalità del crimine e il fatto che non lasci tracce. –

– E io come lo trovo, uno così? –

Non riesco a capacitarmi, e credo si senta dalla mia voce, ma Erica non dimostra molta empatia.

– Beh, adesso quelli sono affari tuoi. Io le informazioni te le ho date tutte. –

– E sei sicura che non possa c’entrare qualcuno dei suoi amici, magari invidioso? O la mafia? Ho appena fatto un’interessante chiacchierata con il suo barista e mi sembra che nel suo passato ci sia un bel po’ da scavare. –

– Cosa pensi abbia fatto in questo tempo? Scavato come una dannata. Per quello ti dico che mi merito il bonus. I suoi amici erano tutti al bar insieme agli altri avventori, durante il fatto, e dal suo passato non pare ci sia nulla che possa portare a una vendetta così “in ritardo”. Il discorso rifiuti era davvero l’unico punto comune. –

Io sono già immerso nei miei pensieri, per cui le chiedo di inviarmi i dettagli via mail, la ringrazio, saluto e le do appuntamento per il pagamento dei suoi servigi a dopo che avrò preso il criminale. Lei non ne è molto felice e protesta, ma io poco gentilmente le riaggancio in faccia. Non ho tempo adesso per discutere, devo pensare a un piano di azione.

Spengo il telefono e vado a letto.

– To be continued –

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