Sono ubriaco di nuovo.
Salgo sul tram e passo tra i sedili, barcollando e tentando di non cadere. C’è della musica potente e fastidiosa e non capisco da dove arriva. Poi mi tocco il culo e mi rendo conto che è il mio cellulare che spara Lady Gaga a pieno volume. Lady Gaga? Eccheccazzo. Faccio per estrarlo, ma non riesco a coordinare bene le dita, per cui lo lascio dov’è e mi siedo. Dopo qualche secondo un tipo seduto vicino a me alza lo sguardo dal suo smartphone e dice:
– Amico, puoi abbassare il volume? Dà fastidio agli altri passeggeri. –
Io lo guardo e sento il mio livello di incazzatura passare da zero a cento nel giro di quattro secondi. Mi alzo e inizio a urlargli contro:
– Che cazzo vuoi, stronzo? Hai qualche problema con me? Hai qualche problema? –
Gli punto il dito contro e urlo:
– Sei morto se mi rompi il cazzo! Morto! Morto! Morto! –
Il tipo si ritrae davanti a me e io mi incazzo ancora di più. Scopro i denti e mi guardo in giro. Vedo due ragazzi che ridono, dall’altra parte del tram, e sono all’improvviso sicuro che se la stanno ridendo di me.
Mi avvicino a loro, sempre instabile, ma con la rabbia che mi tiene in piedi.
– Cazzo avete da ridere? Avete problemi con me? Vi spacco i denti, capito? Ve li spacco! –
Uno dei due ha il coraggio di rispondermi:
– Tranquillo, amico, non stiamo ridendo di te… –
– Sono tuo amico, cazzo? Sono tuo amico? –
Mi giro e mi avvicino ad altri due che sono seduti a poca distanza.
– Voi non sapete che cosa ho passato io, voi non lo sapete! Stronzi! –
Uno dei due mi guarda, calmo. Si alza.
– Non lo so e non me ne frega un cazzo. –
Poi mi tira un pugno alla bocca dello stomaco che mi fa cadere a terra senza fiato. Rimango sul pavimento a tentare di immettere aria nei polmoni, mentre il tram si ferma. Lo sento che mi prende per la camicia e mi butta fuori dal mezzo, facendomi schiantare di faccia contro la pensilina di acciaio. Non sento male, e non capisco se si sia rotto il naso, ma di sicuro inizia a perdere sangue come se lo fosse. Riesco a girarmi a fatica e a mettermi seduto, vedendo nel frattempo il tram andarsene senza di me. Comincio a sentire il dolore, e mentre il sangue continua a scorrere io finalmente inizio a piangere.
Ripenso a quello che mi ha portato ad essere quello che sono ora, ripenso al mio passato, ripenso al sogno che ogni notte mi perseguita da allora, e piango.
Nella mia tasca, il cellulare continua a sparare musica a pieno volume.
***
Io e i miei compagni siamo seduti al bancone del bar. Il posto è immerso nella penombra. E’ metà pomeriggio, ma qui dentro la luce non penetra. Sembra che i pub irlandesi abbiano questo inesplicabile potere di rimanere sempre nell’oscurità, quale che sia l’ora del giorno in cui ci capiti dentro. A una ventina di metri alla mia destra riesco a vedere la porta d’ingresso, da cui arriva la poca luce che illumina l’interno del locale. Alla mia sinistra invece ci sono delle scale e c’è un’altra porta, che per adesso però ignoro.
Il posto sarebbe quasi deserto, se non fosse per noi. Potremmo sembrare una squadra di rugby in trasferta: una quindicina di omaccioni pelosi e dalla faccia corrucciata intenti a bere, insieme a quelle che potrebbero essere le loro mogli o fidanzate. Ma se le guardassi meglio vedresti che i loro visi non sono meno cattivi di quelli dei loro teorici partner, e che anche le loro braccia sembrano scolpite nell’acciaio. E se osservassi con ancora più attenzione riusciresti a vedere quelle che sembrano le impugnature di coltelli spuntare da diverse cinture, e allora forse cominceresti ad avere qualche dubbio su chi siamo veramente.
Io sono seduto all’estremità più oscura del bancone. Ho davanti a me una pinta di birra quasi finita. Il barista mi posa davanti quello che sembra un doppio whisky con ghiaccio e io faccio per scolarmelo, ma un pensiero estraneo
magari se non lo bevo stavolta le cose andranno diversamente
mi ferma. Lascio il bicchiere sul banco, mentre invece tutti i miei compagni se li bevono. Poi, quasi all’unisono, ci alziamo e andiamo verso la porta che ho alla mia sinistra. Oltrepassiamo le scale e ci riuniamo tutti attorno al nostro comandante, che ci spiega la missione per l’ultima volta. Il barista, dietro di noi, fa finta di non vedere e non sentire. Un paio di centoni fanno sempre miracoli per ottenere collaborazione.
Usciremo da lì e dritto davanti a noi ci sarà un edificio alto e grigio. Attraverseremo la strada pedonale che c’è tra il bar e l’altro stabile ed entreremo da una porta a vetri che dà accesso all’edificio. Le informazioni che abbiamo dicono che non dovrebbe essere chiusa a chiave, e le stesse informazioni dicono che non siamo attesi, per cui dovremmo poter semplicemente entrare e procedere con la missione.
Oltrepassata la porta, ci troveremo davanti a un corridoio, mentre a destra ci sarà una scala che sale verso gli alloggi dei Sacerdoti di Ra. A sinistra invece ci sarà una scala che scende verso un’altra porta a vetri, dietro cui si trova il nostro obiettivo. Nella sala dietro a quella porta si trova una reliquia del Primo Sacerdote di Ra: dovremo scendere lì dentro a prenderla. Nessuno di noi sa che cosa sia la reliquia che cerchiamo a parte il nostro comandante, e sarà lui che dovrà occuparsi di recuperarla. Noi siamo solo di supporto, anche se non ci si aspetta una grossa resistenza. Entriamo, prendiamo la reliquia e ce ne andiamo. Non sarà di sicuro qualche prete a spaventarci.
E’ qui che entra però in gioco l’elemento più fastidioso della missione: non possiamo avere armi da fuoco. Non ci è stata data nessuna spiegazione a riguardo, ma non possiamo avere nemmeno una pistola. Per questo ognuno di noi ha almeno un pugnale addosso, e per questo il comandante prima di iniziare si vuole accertare che nessuno stia portando con sé qualcosa, nonostante il divieto. Siamo tutti puliti, però, e lui rimane soddisfatto. La missione sembra di una facilità estrema, e già il fatto che ci abbia permesso di farci un paio di drink prima di partire dimostra che anche lui la pensa così.
Appena il comandante smette di parlare mi posiziono davanti alla porta. Sarò il primo a uscire, mentre lui rimarrà in mezzo al gruppo. Quando ci dà il via io spalanco l’uscio e attraverso la strada pedonale. Non ci sono molti passanti a quest’ora, e arrivo dall’altra parte nel giro di pochi secondi. Mi giro a verificare che ci siamo tutti e poi apro la porta a vetri, che come previsto non è chiusa a chiave.
Davanti a me il corridoio si stende lunghissimo e vuoto, e alla mia sinistra vedo subito la porta dietro cui si trova la reliquia che dobbiamo recuperare. Poi butto l’occhio a destra e vedo che la scala che sale agli alloggi dei Sacerdoti è piena di preti. Non saprei come altro metterla: c’è un prete vestito di nero per ogni gradino, e sono tutti in ginocchio, con la testa bassa come dei penitenti. Non deve essere molto comodo, eppure sono tutti lì silenziosi e immobili. La scena mi lascia perplesso e ho un attimo di esitazione. In quell’attimo vedo uno di loro che solleva la testa e mi guarda dritto negli occhi. Poi si alza in piedi ed estrae dalla tonaca una mitraglietta Uzi. I miei riflessi sono fulminei: mi blocco immediatamente e comincio a girarmi e a urlare a tutti di tornare indietro, di corsa. Nel mentre vedo che anche gli altri preti si stanno alzando e ognuno di loro ha in mano una di quelle maledette mitragliette. Arrivo forse ad urlare la seconda sillaba di INDIETRO, quando le armi cominciano a sputare fuoco e il mondo sembra esplodere intorno a me.
Riesco a spingere fuori i miei compagni senza beccarmi nemmeno una pallottola, il che di per sé è già un miracolo. Tento perfino di chiudere la porta dietro di me, come se una lastra di vetro possa fare la differenza di fronte ad un Uzi: la mente funziona in maniera strana, quando è sotto stress. E la fonte di quello stress sta ora scendendo le scale e uscendo dalla porta, armata fino ai denti e pronta a fare il culo a me e ai miei compagni in maniere inimmaginabili. Non stupisce perciò vederci abbandonare ogni tipo di dignità, reale o finta, e scappare attraverso la strada e di nuovo dentro il pub irlandese. I preti ci sono dietro come ghepardi in vista della preda, e da come sparano deduco un paio di cose. Primo, che questi non sono i veri Sacerdoti di Ra, ma il loro braccio armato, chiamati con molta fantasia i Guerrieri di Ra. Secondo, che siamo fottuti. Se ci uccidono sarebbe quasi un bene: il problema è se ci prendono vivi. I Guerrieri sono famigerati infatti per il loro gusto per gli interrogatori con annessa tortura, e sono ancora più famigerati per quello che fanno alle donne. Neppure io riesco a pensarci, e le mie compagne farebbero bene a correre molto più veloce di me.
Entriamo nel bar, inseguiti da proiettili e uomini indemoniati. La maggior parte della mia squadra attraversa il locale per uscire dalla porta principale e buttarsi in strada. Io sono l’ultimo a entrare, e decido invece di lanciarmi su per le scale, sperando che magari i Guerrieri tirino dritto senza vedermi e io me la possa filare.
Mi vedono.
Volo sui gradini e mi tengo lontano dal passamano, sperando così di non beccare pallottole. Sopra di me sento i rumori di altri passi di corsa e capisco che qualcuno dei miei compagni ha scelto la mia stessa via di fuga. Credo che ci troveremo tutti a tentare di scappare sui tetti, a questo punto, anche se non ho la minima idea se sia possibile. Corro come un dannato, pregando di non schiantarmi sulle scale. Sono veloce, ma i Guerrieri mi sono attaccati al culo e cadere potrebbe significare la fine. E’ in quel momento che vedo un corpo precipitare dall’alto. E’ completamente vestito di nero, e urla mentre va a schiantarsi a terra. A quanto pare qualche Guerriero era già appostato di sopra per sbarrarci ogni via di fuga, ma non gli sta andando molto bene. Quel che è certo però è che siamo vittima di un agguato e che qualcuno ci ha tradito. L’ho già detto che siamo fottuti?
Un paio di rampe più su incrocio i miei compagni, che stanno combattendo contro alcuni Guerrieri. Mi butto nel mezzo della rissa, e riesco a lanciare un altro di loro giù per le scale. Nel frattempo però arriva da dietro anche il resto degli inseguitori, e la situazione si fa drammatica. Nessuno di loro spara, per timore di colpire gli altri Guerrieri, ma non ce la faremo comunque a batterli e ce ne rendiamo conto nello stesso istante. Tentiamo di districarci dal combattimento, ma siamo troppo pochi e loro invece diventano sempre di più. Ad uno ad uno cominciamo a cadere, ad uno ad uno vedo i miei compagni, i miei amici, morire.
E poi tocca a me, quando un fendente di uno dei Guerrieri mi trova sbilanciato e mi apre il torace. Nel tentativo inutile di togliermi dalla traiettoria perdo anche l’equilibrio e cado, andando a schiantarmi giù per le scale. E’ qui che per me questa storia ha fine.
***
Ed è qui che mi sveglio, ogni notte. E’ qui che ricordo che io sono l’ultimo, che dei miei compagni non è rimasto nessuno, dopo quel giorno. Solo io sono sopravvissuto alle ferite, per quanto improbabile sembrasse al momento. E’ stato il barista a tirarmi fuori dal mucchio di cadaveri sul fondo delle scale. E nonostante i problemi che gli avevamo causato, è stato lui che mi ha fatto curare da un medico compiacente. Penso sia una qualche sorta di pietà irlandese che mi ha salvato la vita.
Dopo di allora però, tutto è andato a puttane. Non è come nei film, in cui l’eroe risorge dalle sue ceneri e chiede vendetta e fa strage dei nemici che gli hanno ammazzato i compagni. Dopo di allora c’è stato solo un lento recupero fisico e un ancor più lento (e fallimentare) recupero psicologico. Dopo di allora ogni notte sogno, e ricordo. Ogni notte, a meno che non beva fino a cadere svenuto, cioè. L’alcol mi regala quell’oblio che non riesco più a trovare da solo, ed è così che sono diventato quel che sono adesso. Un fottuto pezzente ubriacone, intendo.
Ora mi guardo, qui, buttato per terra, nella pioggia e nel sangue, e capisco che quel giorno avrei fatto meglio ad essere morto, invece di aggrapparmi alla vita in maniera disperata, solo per poi finire così. Che senso ha avuto sopravvivere ai miei amici, se ora sono ridotto ad un rifiuto della società? Eppure non ho scelta: non trovo riposo se non mi rifugio nell’alcol, e l’alcol mi rende la peggior versione che possa esserci di me stesso.
E sotto quella pensilina, con il naso che sanguina, per la prima volta da anni piango, piango su di me e sul mio fato, piango per quel che sono diventato e dopo molto finisco anche le lacrime. Attorno a me, la vita della città continua, ignorandomi. Mi sento svuotato, e da un certo punto di vista però anche ripulito, come se tutte le lacrime avessero portato via con loro l’infezione che avevo dentro.
Sono sicuro che non è così, e che la prossima volta che chiuderò gli occhi vedrò di nuovo il mio incubo prendere forma. Ma forse, forse, posso fare in modo di dare un’altra fine alla mia storia. Forse posso scegliere di accettare finalmente quello che è successo, e poi di lasciarlo andare. Lasciarmi scivolare dalle spalle il peso che mi porto addosso da troppo tempo, e poi. E poi, andare avanti.
So che non dovrei farci troppo conto, ma sento dentro di me qualcosa che si risveglia, che prende forza. Sento speranza dentro di me. Anche se non posso più cambiare il mio passato, forse posso cambiare il mio futuro. Il tipo che mi ha picchiato mi ha detto una gran cosa a ben pensarci: quando gli ho urlato contro che non sapeva che cosa avevo passato, lui ha detto che non gliene fregava un cazzo. Ed è vero: a nessuno gliene frega un cazzo di me e dei miei problemi. Posso decidere di continuare a rovinarmi la vita da solo e a commiserarmi, e a nessuno interesserà. Posso farlo, ho i miei motivi e sono tutti più che validi.
Oppure potrei decidere di rimettermi in piedi. Solo per me stesso.
E mentre mi alzo da terra, sporco di sangue, muco e lacrime, probabilmente nel punto più basso di tutta la mia esistenza, penso che forse è arrivato il momento di rialzarsi davvero.
Forse è arrivato il momento di andare avanti.
***
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