Della Paura/2

Scendo di nuovo il sentiero pieno di rocce e radici insidiose. L’oscurità ormai la fa da padrona, e vado avanti più grazie alla memoria e all’intuito che ai miei occhi. La vista serve solo per darmi qualche indicazione, ma è l’istinto che mi guida. Le sensazioni che mi arrivano dagli altri sensi sono quelle che mi impediscono di cadere e che mi tengono sempre ad una certa distanza dalla strana famiglia che ho appena incrociato. Non ho mai avuto un’esplosione di curiosità come questa, da non riuscire a resisterle e dover fare tutto il possibile per soddisfarla. Mai mi è successo di perdere il controllo di me stesso in maniera così completa, lasciando la mia ragazza a tornare da sola all’auto. Non sono però in grado di fare autoanalisi in questo momento: l’unica cosa che so è che devo scendere per scoprire cosa stanno facendo quelle tre persone. Se riuscissi a ragionare capirei che c’è qualcosa di strano in tutto questo, ma non riesco a ragionare. Sono diventato una creatura di puro istinto e quello che posso fare è solo seguire la mia curiosità.

Non so come riesco a scendere il sentiero senza ammazzarmi e senza farmi sentire dalla famiglia che ho davanti, ma so che quando arrivo giù la notte è ormai calata e io non vedo ad un palmo dal naso. Vado avanti lo stesso. So che loro sono lì, poco più avanti e quando dopo qualche passo vedo una luce muoversi, capisco di avere ragione. Mi muovo più piano ora, per non farmi individuare, e quando arrivo ad alcuni metri di distanza mi fermo e mi nascondo dietro ad un albero. Li vedo bene: la luce che hanno posizionato tra loro, sebbene sia solo una lanterna da campeggio, illumina chiaramente la scena.

La ragazzina è in piedi su una roccia, e sembra danzare ad una musica che sente solo lei. Ha indossato un cappuccio che le copre tutta la testa e ora ondeggia avanti e indietro. A volte sembra stia ballando da sola, a volte si muove a scatti. In ogni caso è incredibile come riesca a mantenere l’equilibrio, visto che si trova su di una roccia e ha i sensi ottusi dal cappuccio. I suoi genitori (o almeno quelli che io credo siano i suoi genitori) le girano attorno, senza emettere suono. La scena è inquietante, e nel momento in cui li vedo la strana, potentissima curiosità che mi ha attirato laggiù svanisce, l’eccitazione scompare e quello che resta è la paura.

Devo andarmene da là subito, e devo andarmene senza che mi vedano. Non è il fatto che siano in tre a spaventarmi, e tutto si può dire tranne che abbiano un aspetto feroce, ma guardarli in quella specie di rituale mi mette addosso il panico. Devo andarmene. Mi giro e comincio a muovere un passo dopo l’altro, stando attento a dove metto i piedi e sfruttando quanto più possibile la luce che arriva dalla lanterna. Tento di non fare rumore e non ne faccio, sono bravo, continuo a muovermi e sono bravo, non faccio rumore, non mi sentono, un piede, un altro, attento al ramo, occhio alla buca, sono bravo, nessun rumore… crack. Un ramo nascosto sotto un mucchio di foglie fa sentire la sua presenza schiantandosi sotto di me con un rumore che sembra un tuono. La famigliola si interrompe di colpo e tutti e tre fissano dalla mia parte. La ragazzina è la prima a saltare giù dalla roccia e a lanciarsi di corsa verso di me, subito seguita dai suoi genitori. La vedo prendere velocità e non riesco a distogliere lo sguardo mentre va a schiantarsi di brutto contro un albero che ovviamente non ha visto, avendo il cappuccio in testa. Non riesco a trattenermi e sbuffo una risata, risvegliandomi così dalla trance che mi aveva preso e cominciando finalmente a correre. Dei due adulti solo l’uomo si ferma a vedere come sta la ragazza. La donna invece comincia ad inseguirmi con in mente di prendermi e farmi lo scalpo o qualcosa di simile, almeno a vedere la smorfia rabbiosa che le contorce le labbra. L’oscurità non sembra darle i problemi che invece dà a me, e accorcia la distanza tra di noi ad una velocità pazzesca. Io sono appena arrivato all’imboccatura del sentiero e ho cominciato la salita quando scivolo su una radice umida e rovino a terra, grattandomi e spellandomi gambe e braccia. Non ho neanche il tempo di preoccuparmi delle ferite, perché la donna mi è addosso, le mani come artigli che cercano di strapparmi la faccia. Il dolore è formidabile e io non riesco a reagire, tanta è la frenesia con cui questa pazza mi è saltata sopra a cavalcioni e mi sta malmenando. Provo a fermarle le mani o almeno a proteggermi il viso, visto che non sono proprio una bellezza, ma ci tengo lo stesso, e non riesco però a fare niente di più che infastidirla. A quel punto, finalmente, un po’ di rabbia riesce a farsi strada nel mezzo del panico che mi sta bloccando e riesco con un colpo di reni a liberarmi in parte dal peso della donna. Con una mano le intrappolo un braccio e con l’altra faccio partire uno sganascione che le sposta la mascella. So che non si devono picchiare le donne, ma spero comprenderete che ho delle attenuanti in questo caso. Mi libero di lei, le tiro un calcio in faccia per non sbagliare, e riparto di corsa.

Non vedo quasi niente e continuo a scivolare e a rischiare di precipitare, ma questo non mi ferma. Continuo a correre, girandomi indietro ogni tanto a controllare se sono inseguito, ma non riesco a distinguere niente a più di un metro o due da me, per cui smetto di farlo e mi affido solo al mio udito. Non sento niente però, e scelgo di sperare che la donna si sia stancata di corrermi dietro. Questo non significa però che io rallenti la mia fuga, perché il terrore di cui sono preda mi rende impossibile qualsiasi seppur minimo rallentamento.

Dopo quello che sembra un tempo interminabile mi ritrovo di colpo sullo spiazzo iniziale da cui partono i sentieri. Lì ci sono dei lampioni, finalmente accesi, e io aumento la mia velocità approfittando della luce, nonostante ormai i polmoni mi brucino come fuoco e le gambe siano pesanti una tonnellata ciascuna.

Arrivo alla mia auto, spalanco la portiera dalla parte del guidatore e mi lancio dentro. Aurora è sul sedile del passeggero che mi aspetta e prende uno spavento quando arrivo così d’improvviso. Vedo che sarebbe incazzata con me, ma che poi nota come sono preso, il sangue, i graffi, lo sguardo spiritato e la rabbia le passa d’incanto, sostituita dalla paura.

“Niso, che cos’hai? Cos’è successo? Cos’è quel sangue?…”

Io nel frattempo ho già chiuso la portiera, messo la sicura e girato la chiave. Il motore si avvia con un rombo, io sposto la marcia in D e schiaccio l’acceleratore a tavoletta. Ghiaia schizza dappertutto e la macchina si lancia in avanti. Anche se è solo una station wagon il motore è un quattromila e la sua potenza si sente. Mi ricordo di accendere i fari solo dopo qualche centinaio di metri, mentre riesco rispondere ad Aurora solo dopo un paio di chilometri, fatti a tutta velocità e con un occhio sempre allo specchietto retrovisore. Lei nel frattempo ha continuato a chiedere, a domandarmi, diventando sempre più agitata. Quando finalmente riesco a rilassarmi un pelo e a tirare fuori qualche parola il mio racconto le deve sembrare quello di un pazzoide, sconnesso e farneticante. Le ferite però sono lì a provare quello che dico, e lei è costretta a credermi, almeno in parte, anche se tenta di ridimensionare quello che le racconto, provando a farmi ammettere che potrei essermi sbagliato, che ho visto male al buio e così via. Io la lascio parlare per un po’ poi le dico:

“Aurora, non mi interessa se ci credi o no. Io ho visto quello che ho visto, la stronza pazzoide ha fatto quello che ha fatto e quella famiglia per me è completamente fuori di testa. Non mi interessa un cazzo, me ne voglio andare il più lontano possibile, il più velocemente possibile. Che tu mi creda o no non importa, basta che gliela finisci di rompere i coglioni e mi lasci guidare.”

A questo punto lei non fa altro che fissarmi senza dire niente, poi però si sistema nel suo sedile e sta zitta. Io so che un’uscita del genere mi provocherà cazzi amari a non finire, ma non mi sono potuto (voluto) trattenere. Quello che mi è successo è tutta colpa mia, non c’è niente da dire, ma non voglio sentirmi dire che non è esistito o che mi sono immaginato le cose.

Mezz’ora dopo siamo a casa. Un paio d’ore e sono finalmente più rilassato e tranquillo e riusciamo a fare la pace.

Non so dare una spiegazione a quello che è successo. Non so se siano satanisti del nuovo millennio o semplicemente dei pazzi. Non mi interessa.

Il giorno dopo diamo le dimissioni dall’azienda agricola dove stiamo lavorando e andiamo invece a fare esperienza in un ranch di vacche a poco meno di duemila chilometri di distanza dalla nostra precedente abitazione e dal parco nazionale delle Kondalilla Falls.

Mai abbastanza lontano, a mio modesto parere.

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