Oggi vi vorrei raccontare della mia gita domenicale al Kondalilla National Park.
Ora, per una gita domenicale si parte solitamente alla mattina presto in modo di avere tutto il tempo possibile per andare a farsi un bel giro e poi tornare in tranquillità, soprattutto in Oz. Qui il tramonto porta fuori branchi di animali selvatici che non vedono l’ora di attraversare la strada mentre passi in auto. Questi animali, in particolare i canguri, hanno una voglia pazza di morire terribilmente sul tuo cofano e tendono a volerti portare con loro, sfondandoti il parabrezza o sperando che tenti di evitarli, così da schiantarti addosso ad un’altra macchina. C’è secondo me una mente perversa all’opera dietro questi tentativi di suicidio collettivo, ma non ho ancora capito bene il suo scopo finale. Ad ogni modo questo è un motivo per partire la mattina presto e tornare entro il tardo pomeriggio, senza dover mai guidare nell’oscurità.
Un altro motivo è che se, come avevo intenzione di fare io, devi andare a visitare un parco nazionale, puoi star sicuro che la camminata che ti aspetta non è facile nemmeno alla luce del sole, figurarsi quando il sole non c’è. Come tanta parte di questo splendido paese, anche i parchi sono grandi, pieni di saliscendi e sempre un po’ selvaggi. I sentieri possono anche essere tracciati bene, ma la ghiaia è spesso traditrice, e ci sono alberi e rami e punti scivolosi e rocce taglienti e animali. Camminare in luoghi del genere è un bell’esercizio, sia per la mente che per il corpo, ma sono gli stessi enti responsabili dei parchi che all’imbocco di tali sentieri pongono bene in evidenza le mappe, la durata e un’indicazione scritta in grande: SI CONSIGLIA DI COMPLETARE IL PERCORSO PRESCELTO PRIMA DEL TRAMONTO. Sembra quasi l’incipit di una Divina Commedia in salsa Oz, no?
Quello che ho imparato quella fatidica domenica è che se un Ente Parchi ti dice di completare il percorso prima del tramonto, è meglio che tu completi il percorso prima del tramonto.
Al tempo stavo lavorando in una farm di fragole nelle vicinanze di Caboolture, poco a nord di Brisbane, e gli orari erano abbastanza impegnativi. Inizio ore cinque e trenta del mattino, pausa pranzo ore dieci circa, smoko (break) ore dodici e trenta circa e fine lavori ore tre circa. I vari “circa” come potete notare sono riferiti solo all’inizio delle pause. L’inizio lavoro era invece sempre preciso: un quarto d’ora di smoko e mezz’ora di pranzo, punto.
Calcolando che io abitavo a mezz’ora di strada dalla farm, mi dovevo alzare ogni mattina alle tre e quarantacinque per poter fare tutto con calma e arrivare per tempo, sperando di non investire canguri sulla via. Visto poi come eravamo trattati in quel posto, non si può certo dire che fosse una felicità lavorarci. La sensazione che provavi quando arrivavi a casa alle quattro del pomeriggio senza neanche l’energia di mangiare non era molto piacevole. Il dover fare quel tipo di lavoro per un certo periodo per poter allungare il tuo soggiorno sembrava molto un sistema furbo per ottenere schiavi sottopagati che mantenessero gli abitanti di Oz. La rabbia e la fatica si mescolavano con la voglia di mandare tutto a quel paese…o a farsi fottere, per essere più precisi. Non era per fare lo schiavo che ero venuto qui, e farmi sfruttare e trattare male non era il mio ideale di vita. Poiché però il mio obiettivo richiedeva che rimanessi in Oz a lungo, mi ero piegato alla necessità, non avendo intenzione di spezzarmi e rinunciare come tanti altri avevano fatto prima di me. Dopo un po’ avrei cambiato farm e avrei scoperto che non tutti i posti sono così terribili, ma per il momento mi stavo “godendo” quel lavoro.
Tutto questo significava comunque che la domenica (o l’unico altro day off a settimana che eventualmente si poteva avere), non avevo voglia di fare niente a parte dormire e rilassarmi la schiena. Se però sei in Oz non puoi (NON PUOI) passare il tuo tempo a lavorare e dormire e basta. Non vai agli antipodi per fare la vita di un recluso, credo, no? Per questo motivo quel giorno mi alzai, con gran difficoltà, verso le nove, mi preparai, feci colazione, e partii. Partii con la mia ragazza, Aurora, che non ho ancora menzionato finora, e che se leggesse questo racconto mi taglierebbe le palle, sia per il fatto di non averla ancora presentata, sia per quello che la lettura le ricorderebbe. E’ una gran brava ragazza, bisogna dirlo, però. Ogni tanto spacca i coglioni, ma penso questa sia una prerogativa del genere femminile. E credo che allo stesso modo loro pensino lo stesso di noi uomini, visto che anche noi possiamo essere un pain in the ass, come dicono qui. Mi aveva accompagnato in Oz non tanto sicura che fosse la cosa giusta, ma visto che nel paese da cui proveniamo non aveva niente di meglio da fare, aveva deciso di darmi una possibilità e di venire via con me.
Dopo due giorni voleva scappare a casa e non vedermi mai più.
Non so come ero riuscito a convincerla a restare e ora, dopo un mese, le cose si erano abbastanza assestate tra noi due e col nuovo mondo in cui ci trovavamo. Quella domenica fu lei che assolutamente insistette per andare a vedere un paio di “posti carini” che aveva visto nella guida. Io, che stavo seriamente riconsiderando l’opportunità di passare la giornata a letto nonostante i miei principi, avevo accettato anche per togliermi dalle palle dalla casa in cui vivevamo in quel periodo. Questa casa e i suoi abitanti meriterebbero un racconto a parte, che però dovrà attendere un altro momento.
In ogni caso il piano era quello di andare a vedere un posto carino e poi magari un altro posto carino. Troppe cose carine in un giorno solo per i miei gusti, ma uno si deve adattare. E poi speravo di godermi finalmente un po’ di natura, visto che al momento l’unica che avevo visto erano gli alberi dei parchi dove avrei dovuto andare a correre, se la gambe avessero retto dopo il lavoro. Cosa che comunque non era ancora accaduta.
Il primo posto si chiamava Gardners Falls, ed era veramente bello. Si trattava di un parco naturale con delle piccole cascatelle, un ruscello e tanto, tanto verde. C’erano dei posti in cui si potevano organizzare pic-nic e rocce e alberi e tutta la natura che si potesse desiderare vedere. C’era anche molta gente, però, essendo abbastanza facile da raggiungere. Non c’era tuttavia molta possibilità di esplorare attorno, perché dove c’erano sentieri era già tutto colonizzato da altre persone, mentre il resto era foresta impenetrabile, almeno per chi come noi era privo di machete.
Restammo a Gardners Falls a goderci il pranzo a sacco, girando e apprezzando quel po’ di pace che si riusciva a trovare anche in mezzo ad altra gente. Rilassammo le gambe e la schiena sulle rocce e rimanemmo lì a bearci del sole e della temperatura perfetta. Dopo un paio d’ore però Aurora fu presa dall’idea di fare almeno una visita ad un altro parco, quel giorno.
“Dai, c’è ancora qualche ora di luce, andiamo a vedere qualcos’altro!”
Io, che già stavo pregustando il ritorno a casa, la doccia e poi l’eventuale pizza (chi aveva voglia di prepararsi la cena?), non è che fossi molto solleticato dalla voglia, ma non intendevo fare il guastafeste.
“Vaaaaa bene, vediamo cosa si può fare qua attorno.”
Estratta quindi la mappa della zona, mi misi a guardare insieme a lei cosa ci fosse di interessante e non troppo lontano. Quello che tirò fuori il caso fu il parco delle Kondalilla Falls, che prometteva di essere ben più grande e più “naturale” di quello in cui eravamo al momento, e senza così tanta gente. Non distava neppure tantissimo, per cui l’idea fu proposta, approvata e messa in pratica nel giro dei dieci minuti seguenti. Mezz’ora dopo eravamo là.
Come avevamo immaginato il Kondalilla National Park si presentava molto più grande e selvaggio di quello delle Gardner Falls già dal primo passo. Lasciata l’auto nel parcheggio, infatti, si scendeva una scalinata che poi diventava una discesa in terra nel bel mezzo di un grandissimo prato. Qui si potevano fare pic-nic, barbecue o semplicemente rimanere là a leggere o rilassarsi. Scendendo poi ancora più giù si poteva imboccare un sentiero che poi si sarebbe diviso in due tracciati di difficoltà e lunghezza diverse. Il primo, più breve e più semplice, faceva un breve giro attorno alle cascate e a qualche pozza d’acqua e poi riportava alla partenza. Il secondo, più lungo e più difficile, portava invece al fondo delle Kondalilla Falls e prometteva in cambio di una maggiore fatica dei panorami molto più belli. Come sempre nei cartelli con le indicazioni all’inizio della via, si raccomandava di non dar da mangiare agli animali, di stare attenti a non scivolare sulle rocce e di completare il circuito entro le ore di luce. Per non sbagliare erano anche segnalati i tempi necessari per ogni percorso.
Si cominciava a essere un po’ troppo vicini al tramonto, ma decidemmo intanto di cominciare il tragitto e poi di decidere al momento. Dopo dieci minuti di camminata tranquilla in mezzo al bosco, incrociando e salutando varie persone in costume da bagno e infradito, arrivammo ad una gran pozza d’acqua. Diverse persone prendevano il sole sulle rocce, altre facevano il bagno. Noi proseguimmo per la nostra strada e ritornammo nella foresta, seguendo il nostro sentiero di ghiaia su e giù per le salite e discese. Continuammo a incontrare persone che tornavano indietro, avendo finito il loro giro, e al momento non prestammo attenzione al fatto che eravamo gli unici che stavano cominciando solo allora il circuito. Il sole era ancora alto sull’orizzonte, gli uccelli cinguettavano sugli alberi e la foresta aveva un aspetto magnifico. Gli alberi erano imponenti e il sottobosco fitto, ma la luce penetrava ovunque e la Natura che sentivamo attorno a noi era corroborante. Camminammo ancora qualche minuto, arrivando infine al bivio tra i due sentieri. A destra si sarebbe preso il percorso per arrivare al fondo delle cascate, mentre a sinistra si sarebbe imboccato il tracciato più semplice, un po’ meno panoramico. Peccato che il sentiero a sinistra fosse sbarrato e alcuni segnali rossi dicessero che era tutto ancora in preparazione e di non proseguire. Uno degli sbarramenti era stato spostato da qualcuno per poter passare comunque, ma l’avviso era sempre là.
“Ascolta, Aurora”, dissi io, “a ‘sto punto direi ‘na roba. Siamo qua, il sole è ancora alto, il passaggio a sinistra non mi sembra tanto affidabile, visti i segnali…andiamo a destra e proviamo il giro lungo. C’è scritto che il circuito dura un’ora: adesso sono le quattro e mezza, per le cinque e mezza siamo in macchina e il sole tramonta solo alle sei. Poi sai che loro mettono la durata media calcolata sui vecchiotti: io e te siamo giovincelli, ce la sbrighiamo in tre quarti d’ora. Cosa dici?”
“Non è che mi fidi molto, sai, Niso”, rispose lei, “Se poi il sole tramonta prima, tipo…?”
“Va là, va là. Dai, andiamo!”
Smisi di ascoltare le sue proteste e mi avviai. Lei mi seguì, malvolentieri, ma non del tutto. Cavoli, eravamo in Oz per vedere questo tipo di cose, mica per farcela sotto e tornare a casa in anticipo.
Da quel punto in poi il sentiero diventava evidentemente più serio: basta con i tratti cementati, basta con i corrimano di metallo, basta anche con la gente. La via ora era di nuda terra e si affacciava su dei burroni pazzeschi. Dovevi stare attento a dove mettevi i piedi, perché se fossi scivolato su di una roccia umida sarebbe stato complicato recuperarti. C’erano ovviamente alberi dappertutto, ma non è che se scivoli giù per una scarpata senza piante ti fai più male che se scivoli e ti impali su un ramo. Incontravamo sempre meno gente e quelli che incrociavamo stavano tutti tornando indietro. Nessuno stava seguendo il nostro esempio, avventurandosi nella montagna a quell’ora di pomeriggio. La cosa però non ci preoccupava, o almeno non preoccupava me. Il posto era favoloso e il panorama ti faceva dimenticare qualsiasi pensiero. Perfino Aurora dovette ammettere che valeva la pena fare il giro più lungo per poter vedere tutto ciò. Il sentiero si snodava sul fianco del monte, immerso tra gli alberi per la maggior parte del tempo, ma con alcuni punti in cui si poteva ammirare la valle sottostante. Vista l’ora potemmo apprezzare ancora di più la luce, essendo quasi il tramonto. Fu ad uno di questi punti che la mia ragazza ricominciò.
“Niso, io direi che sarebbe meglio tornare, sai. Lo vedi anche tu che il sole è sempre più basso, e non ho voglia di tornare col buio in mezzo a tutti quegli alberi e agli animali notturni e chissà cos’altro.”
“Ma dai, sono solo meno dieci alle cinque, possiamo arrivare in fondo e fare tutto il giro come ti dicevo. Siamo più che in tempo, visto che tanto lo sai che prima delle sei non viene buio. Dai dai…”
“Eccheccazzo, io ho paura, poi! Non mi piace stare da soli in mezzo all’oscurità! L’hai visto anche tu che abbiamo trovato pochissima gente, e tutti stavano tornando indietro. Facciamo anche noi così e chissenefrega delle cascate! Ho anche le scarpe da ginnastica e ho paura di scivolare, cazzo!”
“Eh no, cara! Io le cascate le voglio vedere, adesso. Sono qua, ho fatto tutta questa strada e adesso voglio vederle. Dai, andiamo avanti altri dieci minuti, così sappiamo che abbiamo fatto mezz’ora di andata e ci lasciamo mezz’ora per il ritorno. Prometto che se tra dieci minuti non siamo ancora arrivati, torniamo indietro lo stesso.”
Questo sembrò rabbonirla un po’ e si lasciò convincere a proseguire. In effetti, devo ammetterlo, non è che avesse torto. La luce del sole era sempre più bassa e tra gli alberi si cominciava già a vedere con più fatica. Quando non c’erano le fronde a nascondere i raggi era ancora fantastico, ma quando si era immersi nella foresta si notava come le ombre fossero sempre più lunghe. Io però facevo finta di niente, sperando non se ne accorgesse. Quelle cascate erano diventate un puntiglio: volevo vederle ad ogni costo, punto.
Facevo quindi finta di niente anche su un’altra cosa che Aurora non sembrava ricordarsi, ma che io ricordavo bene. Nel regno di Oz, o almeno nella regione dove eravamo in quel periodo, il sole non va giù come nella nostra madrepatria. Da noi un tramonto può durare a lungo, e la luce non svanisce mai di colpo. A Oz invece, il sole ora c’è, ti giri dall’altra parte un secondo e quando ti rigiri è notte. Le prime volte, quando ancora non ero abituato a come funzionavano le cose, entravo nel bagno senza finestre della mia casa per farmi la doccia che era giorno e quando uscivo dopo essermi asciugato mi trovavo nel buio più completo. Pazzesco. E se devo essere sincero facevo anche finta di non ricordarmi che al momento stavamo camminando solo in discesa, visto che stavamo andando verso il fondo delle cascate, ma il ritorno sarebbe stato tutto in salita.
Fingevo quindi sicurezza totale e andavo avanti per la mia strada, trascinandomi dietro un’Aurora sempre meno convinta.
“Niso, guarda che per me sono anche passati i dieci minuti…”, disse ad un certo punto.
Io guardai l’ora, vidi che ne erano passati quindici e dissi:
“Eh, n’altro paio di minuti e ci giriamo, dai. Siamo a otto, adesso.”
Subito dopo questa mia uscita vedemmo un’altra persona che stava tornando su per il sentiero. La fermai e le chiesi quanto mancava al fondovalle. Lei, beata innocenza, mi disse che mancavano solo cinque minuti. Io mi girai verso Aurora e le dissi:
“Dai, che ce la facciamo. Dai dai!”
Sempre più malvolentieri lei mi seguì e riuscimmo (dopo un po’ più di cinque minuti) ad arrivare finalmente alle cascate…che furono una delusione enorme. Ho ancora il dubbio che fosse veramente quello il fondo delle cascate: c’erano sì le rocce che e c’era l’acqua che scendeva, ma era poca e il tutto, anche se molto bello, non era per niente spettacolare come mi aspettavo. Il sentiero inoltre proseguiva salendo, continuando il circuito che avevamo iniziato noi. Non so però se ci fosse qualcos’altro al di là di quegli alberi e di quelle rocce, perché fu a quel punto che Aurora si impuntò e decise che non sarebbe andata più avanti.
“Col cazzo che adesso saliamo su per di là! Siamo andati anche troppo oltre. Ora ci giriamo e torniamo indietro che sta diventando buio!”
“Ma se dicono che è un circuito e che dura tre quarti d’ora, in teoria proseguendo dovremmo tornare al parcheggio anche più velocemente che tornando indietro. E poi magari c’è altro da vedere, se andiamo più su! Puoi fare delle foto fighe!”
Aurora infatti è una maniaca della fotografia. Ha una Reflex abbastanza buona e adora scattare foto di paesaggi. Non riuscii però a convincerla nemmeno con questo.
“No, col cazzo ti ho detto. Ora faccio due foto qua, visto che abbiamo fatto tutta ‘sta fatica, e poi ce ne torniamo alla macchina di corsa!”
Ci spostammo quindi dal sentiero verso il fondo delle cascate, camminando sulle rocce, io davanti e lei dietro. Fu là che però ad un certo punto sentii un “porc…” e poi il rumore di un corpo che cadeva a terra. Mi girai e non vidi più la mia ragazza.
“Aurora??”, gridai, e poi tornai indietro il più velocemente possibile, saltando di sasso in sasso.
La trovai per terra, nascosta dalle rocce, con le ginocchia e un gomito a terra, ma con l’altra mano che sollevava in aria la Reflex, intatta.
“Ti sei fatta male? Come stai? La testa?”, le chiesi, tutto agitato.
Per tutta risposta lei disse solo:
“La Reflex? É intera? Tutto a posto?”
“La fotocamera sta bene, sì, ma tu? Hai sbattuto da qualche parte con la testa? E il resto? Come hai fatto?”, le risposi.
Ridacchiò un po’ e poi disse:
“Lo sai come sono le Converse col bagnato. Non ho aderenza. Aspetta che mi alzo…”
Le presi di mano la fotocamera e la aiutai ad alzarsi. Fortunatamente non si era fatta niente, a parte un paio di botte alle gambe. La caduta però l’aveva rinvigorita nel dirmi di tornarcene alla macchina per la strada che avevamo già fatto. Già ero stato fortunato che avesse preso l’incidente con una risata e non sbranandomi vivo.
“Non voglio rischiare di trovarmi persa in mezzo ai boschi e a chissà che animali nel buio, capito? Ora andiamo e basta.”
Finì di fare le sue foto e si avviò verso il sentiero. A quel punto non potei far altro che seguirla, mentre pian piano riattraversava le rocce e cominciava la salita. In effetti ormai il sole aveva cominciato a calare decisamente e lì a fondovalle, nel bel mezzo della foresta, il buio iniziava a farsi strada.
Fu perciò così che ripartimmo con passo deciso, ritornando indietro per dove eravamo venuti. La strada era ora tutta in salita, ma noi eravamo abbastanza in forma, e le ombre sempre maggiori ci davano una spinta abbastanza potente per affrontare qualsiasi percorso. Perfino io, devo ammetterlo, cominciai a farmi suggestionare dall’oscurità che stava calando.
Il tramonto ormai era cominciato ufficialmente e la luce era sempre più grigia. Si facevano fatica a distinguere le radici e le rocce che spuntavano dal terreno ed era più difficile camminare in fretta, a meno che non si volesse precipitare giù per un burrone. Nessuno di noi due parlava, ma continuavamo a salire quanto più velocemente possibile, senza guardare i panorami o altro. A dire la verità un paio di volte mi fermai per fare una foto del sole che scompariva dietro gli alberi della valle di fronte a noi: in me si mescolavano insensatamente l’agitazione causata dalla situazione in cui ci trovavamo e l’eccitazione provocata proprio da quella situazione. Mi sembrava di essere dentro a un film, e mi comportavo come avrebbe fatto uno degli idioti a cui diciamo sempre muoviti! dove cazzo vai! mentre guardiamo la pellicola in questione. Dopo aver ricevuto alcuni elaborati insulti dalla mia ragazza però la smisi di perdere tempo e la seguii senza parlare.
Il ritorno sembrò anche a me ben più lungo dell’andata, con la paura continua di perdere la strada ad uno dei due o tre bivi che avevamo trovato. L’oscurità rendeva il sentiero diverso da com’era stato solo pochi minuti prima, e ogni tanto l’ansia ci faceva dubitare della direzione in cui stavamo andando. Proseguimmo, però, e ad un certo punto riconobbi finalmente un parapetto in cemento e acciaio che avevamo visto poco dopo essere partiti.
“Hai visto Aurora? Questo l’abbiamo passato all’andata, quindi vuol dire che siamo quasi arrivati!”
“Speriamo, cazzo, sennò sappi che me la paghi.”
Avevo ragione, e lo sapevo, ma stetti in ogni caso zitto e continuai a camminare, mentre il sole ormai neanche più si vedeva all’orizzonte. Pochi minuti ancora e anche la mia ragazza avrebbe visto che eravamo finalmente arrivati e che non c’era più di cui preoccuparsi.
Stranamente però, mentre continuavamo a salire, incrociammo quella che a prima vista sembrava proprio una famiglia in gita che stava scendendo giù verso la cascata da cui noi stavamo tornando. Erano un uomo e una donna di probabili origini indiane con quella che sembrava essere la figlia. Tutti e tre scendevano giù di buona lena, incuranti della notte incombente. Quando li incrociammo ci scambiammo un saluto, come fanno sempre gli abitanti di Oz, che si conoscano o meno, poi loro proseguirono per la loro strada e noi per la nostra.
“E tu che rompevi tanto le palle per tornare in fretta! C’è gente che va giù anche adesso…” dissi ad Aurora, sorridendo.
Lei disse solo:
“Quelli sono fuori di testa ad scendere col buio.”
Dopo cinque minuti di ulteriore camminata, arrivammo finalmente al prato che precedeva i parcheggi e subito dopo alla nostra auto. L’oscurità era ormai ufficialmente arrivata e noi salimmo in macchina tirando un grosso sospiro di sollievo. Non era successo niente di che, ma ci sembrava lo stesso di essere sfuggiti per un soffio alle grinfie di qualcosa di terribile. Appena ti allontani un po’ dalla civiltà il buio torna a essere spaventoso e noi ce n’eravamo appena resi conto.
Ci facemmo una risata liberatoria e finalmente partimmo verso casa.
P.S.: a questa storia devo però aggiungere una nota. Sarà forse la nota più lunga della storia delle note, ma devo farlo. Sì, perché forse il racconto non finisce veramente così, e forse io, preso dalla mia strana eccitazione causata dalla situazione in cui ci eravamo cacciati, non ero tornato davvero in macchina con Aurora. Forse le avevo detto qualcosa tipo:
“Eh, no, adesso sono curioso e vado a vedere che cacchio fa quella gente giù a queste ore, al buio e in mezzo alla foresta!”
E forse lei mi aveva detto:
“Tu sei fuori peggio di loro! Ora torni con me e basta!”
E forse io non l’avevo ascoltata, rendendo la fine della storia invece questa:
(vedi prossimo post)