Lezioni da Onward, il mio primo film al cinema post-quarantena
—
Entro al cinema per la prima volta da febbraio 2020 e la sensazione non è quella di tornare a casa. Il Covid-19 e l’estate stessa rendono il cinema un’esperienza per pochi, di questi tempi.
Bellissimo, forse, da un certo punto di vista.
Triste da morire dall’altro.
Ok, hai tutta la sala per te, ma quanto è più bello quando un film diventa un’esperienza collettiva, in cui si ride insieme, ci si emoziona insieme, si ha paura insieme? Quanto più potente diventa la magia del cinema? Quella è gran parte della sua forza, altrimenti sarebbe solo come avere Netflix su uno schermo più grande.
In ogni caso il film che sono venuto a vedere oggi si chiama Onward – Oltre la Magia ed è l’ultima creazione della Pixar. Non so molto della trama: il trailer era bello e, come per tutti i film che decido di vedere, smetto immediatamente di informarmi su di essi o guardare nuovi trailer fino a che non è il momento di entrare in sala. Ultimamente i traileristi hanno deciso che è una buona idea mostrare tutta la pellicola in due minuti e mezzo di pubblicità, per cui evito.
Entro quindi in sala che so a malapena di cosa parla il film, e va bene così. Tanto per dire, della prossima opera di Nolan, Tenet, (che sperabilmente avrò già visto al momento della pubblicazione di questo articolo), non so nemmeno chi sia il protagonista e tanto meno di cosa parli. Con Christopher Nolan è come con Stephen King: si va sulla totale fiducia.
In ogni caso, ecco un veloce excursus sulla storia di Onward, rigorosamente senza spoiler.
Siamo in un mondo che non è il nostro e dove coesistono da sempre esseri fatati: elfi, troll, draghi e quant’altro. In questo mondo la magia era presente in ogni luogo e i maghi aiutavano la gente con i loro poteri. Questi poteri però non erano alla portata di tutti e per questo motivo si sviluppò anche qui la tecnologia moderna, così da permettere ad ognuno di avere certe comodità in maniera più facile. In questo modo, però, si perse il contatto con la magia e se ora ci sono auto, case, elettricità, scuole, nessuno però possiede o usa poteri speciali.
Chi ha qualcosa di speciale lo ha piuttosto messo da parte. Unicorni che sono diventati come cani randagi che mangiano spazzatura. Fate che hanno dimenticato come si fa a volare. Centauri in grado di correre a più di cento chilometri all’ora, ma che preferiscono guidare un’auto.
In questo mondo non è più rimasto spazio per la magia, e chi crede in un certo tipo di cose è guardato come un pazzo. Non perché non si sia consapevoli che sono esistite, ma perché si pensa non possano esistere più e che comunque non abbiano valore.
È qui che entra in gioco il protagonista, Ian, e suo fratello maggiore Barley. Questi due elfi sono rimasti orfani di padre da piccoli e ora vivono con la madre, Laurel, in una casetta dei sobborghi. Per il sedicesimo compleanno di Ian la madre tira giù dalla soffitta un regalo che il padre, Wilden, aveva lasciato per entrambi i figli quando il più giovane avesse raggiunto quell’età. Grazie a questo dono i due riusciranno a richiamarlo dall’aldilà per un giorno intero, per poterci stare insieme ancora 24 ore. Qualcosa però va storto e richiamano solo la parte inferiore del corpo, dalla vita in giù.
Il film è quindi incentrato sul tentativo dei due fratelli di recuperare un artefatto che li aiuti a evocare anche la parte superiore del corpo di Wilden. Tutto questo, naturalmente, prima che finisca l’incantesimo.
Non racconterò come va la storia, ma certamente non finisce (e se è per questo, in parte si discosta del tutto) nel solito modo. È ovviamente un film Pixar, ed è ovviamente un film per famiglie, ma certi temi e certi dettagli hanno una forte risonanza, se si sceglie di prestarci attenzione. È questo che lo innalza, secondo me, uno scalino al di sopra di molti altri dei loro film. Forse non ha la potenza di Up o di Wall-E, ma ci siamo, quasi. Gli spunti che lancia e le idee di sicuro sono interessanti, ed è di queste che voglio parlare nello specifico.
Intanto vorrei far notare la strizzata d’occhio al mondo dei giochi di ruolo, che ultimamente è diventato “quasi” di tendenza, dopo essere stato sdoganato insieme al mondo nerd nel suo complesso. Barley è un super appassionato di GDR, ai limiti della mania, ma anche il film stesso ha una struttura che ricorda quella di una campagna di gioco, con misteri da scoprire, artefatti da trovare, passaggi di livello da fare, indizi sparsi in maniera precisa in tutta la trama. Onward si pone lo scopo precipuo di sdoganare ancora di più questo mondo un po’ nascosto di gente che nel suo tempo libero si diverte ad essere un guerriero, un mago, un guaritore, un chaotic lord.
E nel suo lavoro di mettere in luce mondi nascosti e ultimamente non molto apprezzati, come non nominare la presenza fondamentale del rock nella colonna sonora? Questo in un film Disney, dove normalmente ti devi accontentare di qualche chitarra acustica, se sei fortunato.
Questa musica è tutta legata a Barley, personaggio su cui torneremo dopo e che incarna in sé tutti i temi fondamentali del film: l’anticonformismo, l’importanza di ricordare la propria storia per poter creare il proprio futuro, ma soprattutto quanto sia importante comprendere la propria vera natura e accettarla per raggiungere quel livello di scopo, di senso e di soddisfazione di se stessi che altrimenti sarà sempre inarrivabile.
La società magari ti porta a voler sostituire chi sei con chi dovresti essere, ma correre dietro a un ideale che non è proprio porta a diventare vuoti e, alla fine, a trovarsi in crisi con se stessi. Esempio perfetto di questo tema ne è la Manticora, ex-guerriera, ex-mostro, protagonista di mille avventure, che però ora vive una parabola discendente che a un certo punto diventa evidente anche a lei e che la porta appunto in crisi.
La Manticora diventa quindi un personaggio molto interessante perché, mentre il protagonista alla fine fa un viaggio di scoperta di sé, lei invece è alla riscoperta di sé. Lei pian piano sta ricordando chi è davvero, e incarna la sfida rappresentata dal ricordare ed essere chi si è, anche quando diventa più rischioso.
Allo stesso modo, anche la madre dei due fratelli è un personaggio interessante. Sebbene sia in secondo piano, lei non è la classica mamma di un classico film Disney, che si occupa dei figli e basta. Laurel è una che si allena davanti ai video di aerobica, conosce un po’ di arti marziali e ha trovato un nuovo compagno in un centauro poliziotto dal scarso senso del’umorismo, Colt Bronco.
Quando poi scopre che Ian e Barley potrebbero essere in pericolo lei prende la sua utilitaria e parte, fregandosene di tutto e tutti, pronta a ogni cosa, ma non a fare la donna debole, che blocca i figli e tarpa loro le ali per paura. Lei no, lei (metaforicamente) è quella che li aiuta a non schiantarsi sostenendoli in volo, non frenandoli. In questo film, infatti, la parte di quello spaventato, di quello rigido sui suoi principi, di quello che tenta di bloccare ogni tentativo di “volo” ce l’ha il suo nuovo compagno, Colt Bronco. È lui che incarna la difficoltà della società di accettare il “diverso” e i tentativi che mette in atto per tenere tutti giù, tutti fermi, tutti ordinati, tutti alla stessa altezza. Ed è ovviamente lui che fa la figura di quello un po’ più tonto, anche se, alla fine, di buon cuore.
(Ma dove la mettiamo poi la scelta dei nomi? Solo per dirne una: il padre dei ragazzi si chiama Wilden, il poliziotto si chiama Colt Bronco. Dice niente?)
Quest’ultimo tenta quindi, in parte, di essere una figura sostitutiva del padre, un riferimento per i due giovani elfi. Non ci riesce, ma aiuta così a mettere in luce, per contrasto, il rapporto fondamentale tra i fratelli e con il genitore scomparso.
Se Barley ha avuto modo di conoscere Wilden, e ne ha perfino una manciata di ricordi, Ian non ne ha mai avuto la possibilità. Da qui il suo desiderio di potergli parlare, almeno una volta. Ma se è questo desiderio che porta avanti tutto il film, è il rapporto tra i due fratelli che gli dà la struttura fondamentale e la forza. Come sono uno con l’altro è tanto importante quanto il loro rapporto col mondo. Se, come da copione, tra di loro c’è della conflittualità e dell’incomprensione, c’è però anche un profondo amore.
Ian, a dire il vero, in molte parti del film è una vera pigna, ma è comprensibile che così sia. È lui il protagonista, quello il cui arco narrativo deve essere sviluppato appieno, e parte ovviamente da un punto più basso per poter mostrare la sua crescita nel corso del film.
Si recupera poi in alcuni punti, e soprattutto nel legame e nel rapporto che ha con suo fratello Barley che (SPOILER), come si rende conto in uno dei momenti più importanti del film, è stato il padre che non ha mai avuto.
Barley, appunto. Il personaggio più completo e più “avanti” di tutto il il film e quello che, alla fine, fa da pietra di paragone per tutti, dimostrando come davvero potrebbero e dovrebbero essere.
In un film in cui uno dei temi principali è l’accettazione di sé e il rifiuto dell’omologazione, Barley è l’esempio di tutto ciò che uno dovrebbe fare per stare bene. Lui accetta ogni parte di sé e non ha alcun problema di autostima o di insicurezza. Come mai sia così ci viene spiegato in un dialogo con suo fratello, ma il suo essere speciale è anche qualcosa di innato, oltre che coltivato con cura. In lui non c’è invidia per Ian, quando scopre che è il fratello ad avere i poteri magici, ma solo entusiasmo. In ogni passo della sua vita è sempre stato un sostegno e una spinta per Ian, mostrandogli con l’esempio come vivere davvero. Esempio che il fratello ovviamente non coglie, tutto preoccupato e impaurito del giudizio degli altri e di andare contro le regole costituite, cose di cui a Barley non potrebbe fregare di meno.
Questa è la sua vera forza: Barley è ciò che è e per questo non chiede scusa a nessuno: un nerd metallaro, amante dei giochi da tavolo, con pochi soldi e un furgone scassato (ma potente e “rock”), pieno di entusiasmo per la vita e senza un grammo di invidia o senso di inferiorità verso gli altri. Lui accetta il suo passato e il passato della società in cui vive, e non lo rinnega, anzi lo ama e lo esplora, e, tra le altre cose, è questo che fa avanzare la trama. Sa quello che è e non lo rifiuta per piegarsi all’omologazione: non ha paura di rivelare la sua vera natura, perché capisce che non c’è niente di cui vergognarsi.
È questo che per me è il messaggio che Onward lancia a piena forza, quello che alla fine anche il resto dei personaggi finalmente inizia a capire: accettare la propria vera natura, rivelarla, viverla e non averne paura, è l’unica maniera per vivere davvero e dare un senso al vivere stesso.
Tra divertimento, suspense e magia, non è poca roba per un cartone animato.