
Cosa saresti disposto a fare se rischiassi di perdere tutto quello per cui hai vissuto?
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La sua vita era creare.
Da sempre, ogni giorno, la cosa a cui più agognava era il momento in cui poteva finalmente chiudere il mondo fuori dal suo studio e dipingere. Inizialmente erano stati gli sforzi fanciulleschi di un novizio che affrontava l’Arte per la prima volta. Tentativi di paesaggi, di ritratti. Ore, giorni, mesi, anni passati davanti una una tela, ad un blocco, ad un laptop. Il supporto non era fondamentale, l’importante era poter creare.
Poi la sua abilità si era affinata. Era passato col tempo dai primi rozzi tentativi a riuscire a mostrare i dettagli di ciò che voleva rappresentare in un modo che si poteva definire quasi fotografico. E poi si era stufato e aveva iniziato a cercare un suo stile più personale, seguendo una ricerca artistica che lo aveva portato quasi all’astratto puro, al concettuale, e che alla fine si era sviluppato in un mondo tutto suo. Ormai si poteva parlare di dipinti à la Mark: il suo nome era diventato sinonimo della sua Arte e di ciò non poteva essere più felice.
Riusciva a vivere, grazie a questo. Non sarebbe mai stato ricchissimo, forse, ma più andava avanti, più era conosciuto, e così la sua vita poteva continuare nei binari che lui aveva scelto e per cui aveva lavorato così tanto.
La sua Musa era sempre presente e lo ispirava, giorno dopo giorno. E giorno dopo giorno, lui prendeva in mano il pennello e la seguiva. E lavorava. E si dannava. Tutto per poter fare in modo di realizzare le idee che gli si presentavano in testa nella forma più vicina a quella che vedeva possibile.
Con la relativa fama che aveva raggiunto aumentarono anche le occasioni di conoscere persone, e di partecipare a quella vita mondana che fino a quel momento aveva accuratamente evitato. Fu così che scoprì che partecipare alle feste non era così male. Divertirsi non era così male. Bere non era così male. Prendere qualcos’altro di più forte non era così male.
Qualche priorità iniziò a spostarsi, qualche urgenza creativa a venire soppressa in favore di più soldi e di più feste. Sempre più sere iniziarono a perdersi nella nebbia. Sempre più mattine iniziarono a vederlo in grado solo di reggersi la testa perché non esplodesse.
Ma questa non è la storia di come Mark si perse nel mondo della fama, della droga, dell’alcol. Questa è la storia di come perse la sua Musa.
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Avere una Musa che ti ispira a creare significa diverse cose.
Significa poter vivere in un mondo tutto tuo. Significa poter vedere cose che agli altri non sono visibili. Significa avere una visione. E significa poter tramutare questa visione in realtà. Significa non essere semplicemente degli artigiani, ma degli Artisti.
A volte è come vivere nel mondo delle favole, con energia ed ispirazione che ti sprizzano dai pori e ogni pennellata, ogni nota, ogni riga che sembrano nascere dall’aria ed essere perfette, subito.
Altre volte è come spingere un masso su per una montagna e per ogni passo che fai verso la cima, ne fai almeno due indietro.
C’è una cosa che però accomuna questi due momenti, ed è la spinta interiore, l’ossessione, che ti obbliga a creare. Quando hai la Musa al tuo fianco, fai fatica a trovare spazio per altro, ed è così che rischi di perdere ogni equilibrio nella tua vita. È anche per questo che un Artista sarà difficilmente un essere umano equilibrato, a meno che non sappia sviluppare una forte autodisciplina sulla sua mente. Impresa difficile per tutti, ancora di più per lui o lei.
L’altro punto fondamentale per chi ha una Musa è che la deve tenere ben nutrita. Questo significa che ogni giorno deve essere pronto a seguire la sua Arte, deve essere pronto a creare. Se uno “aspetta l’ispirazione” per fare qualcosa, non la farà mai. L’ispirazione non arriva da sola, la si sviluppa ogni giorno, presentandosi alla propria Musa per creare insieme il lavoro della vita. E siccome la Musa è una donna, se si iniziano a saltare gli appuntamenti con lei, anche lei smetterà di farsi vedere. E meno ti fai vedere tu, meno si fa vedere anche lei, fino a che, un giorno, sparisce del tutto. Così si mette alla ricerca di qualcuno di più degno che possa aiutarla a creare quelle opere su cui tu non hai più voluto lavorare.
E quando una Musa se n’è andata, farla ritornare è difficile, molto difficile.
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Mark andava alle feste, ma non era il problema principale.
Mark beveva troppo, ma non era il problema principale.
Mark a volte prendeva droghe, ma nemmeno questo era il problema principale.
Mark aveva iniziato a saltare sempre più spesso i suoi appuntamenti con la Musa: ecco, questo era il vero problema.
Un Artista che non crea, oltre a perdere il contatto con la sua Musa, perde anche il contatto con il suo equilibrio interiore. Creare è il suo modo di essere in equilibrio, quindi smettere di farlo disallinea ogni parte del suo essere.
Mark perse il contatto con la Musa e con se stesso, facendosi trascinare da feste, impegni, da quel mondo “normale” che aveva così spesso ignorato per poter creare i suoi mondi immaginari.
Mark passò due anni così, ad andare avanti d’inerzia, dipingendo solo ogni tanto, e diminuendo sempre di più il tempo che passava davanti alla tela. Così tanto che un giorno, svegliandosi dopo una notte nemmeno così terribile, aprì gli occhi e si rese conto che erano almeno sei mesi che non toccava un pennello.
Ora, Mark non era più molto in sé da un pezzo, ma non era nemmeno uno stupido e quel giorno si rese ben conto di quello che stava succedendo. Aveva già visto di persona a cosa avrebbe portato una vita del genere, e se anche non l’avesse visto con i suoi occhi, la Storia insegna a chi la sa ascoltare.
Non aveva intenzione di diventare l’ennesimo artista simil-tormentato che si butta in una spirale discendente per poi morire giovane, bruciarsi o finire sotto un ponte. Si stava divertendo, certo, ma si rendeva ora conto che se avesse proseguito su quella strada sarebbe finito male. Finché era ancora in tempo, meglio fermarsi.
Mark non era uno stupido e conosceva bene sia la sua natura che la natura umana in generale. Non aspettò che la sua mente iniziasse a razionalizzare (non sei così preso male…la vita è una, bisogna divertirsi…almeno pensaci bene, prima…), e neppure che gli passasse il post sbornia che lo stava tormentando.
Chiamò uno dei suoi pochi, pochi amici di lunga data, uno di quelli che lo aveva sempre sostenuto anche nei momenti peggiori e gli disse che aveva bisogno di uscirne. L’altro capì subito, e le cose iniziarono a muoversi.
Dieci giorni dopo era in una quelle cliniche di riabilitazione in cui pensava andassero solo le star del cinema. A quanto pareva non era però il solo “non famoso”, lì dentro. Non che quella fosse la sua principale preoccupazione, da quel momento in poi.
Le settimane successive furono molto dure, ma la sua motivazione lo era altrettanto. Non mollò, non cambiò idea, non tentò di fare il furbo. Era fortunato ad essere ancora in uno stadio recuperabile, ma fu comunque difficile uscirne. Dalla sua aveva però la voglia di tornare a dipingere e il pensiero di tutte le opere che avrebbe potuto ancora creare. Fu questo a spingerlo, in quel periodo, e fu questo a tenerlo in piedi una volta che, finita la parte più fisica del programma, dovette iniziare a combattere la sua debolezza psicologica.
Fu l’idea dell’Arte a farlo andare avanti, e fu sempre l’Arte a renderlo più forte e a farlo uscire pulito e lucido come non mai.
È anche per questo che, quando scoprì di non riuscire più a dipingere, ne rimase devastato.
La sua Musa lo aveva abbandonato.

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Come si rese conto abbastanza in fretta, il muscolo della creatività fa davvero presto ad atrofizzarsi, se lasciato fermo per troppo tempo. Il suo era rimasto a riposo per anni, e ricominciare a farlo funzionare sembrava impossibile.
La differenza tra lui e altri artisti che avevano attraversato brutti periodi caratterizzati da alcol e droghe era una, in particolare. Loro non avevano mai smesso di creare, anche nel mezzo del turbinio di una vita pazza e fuori controllo. Come capitani di una nave in tempesta, avevano continuato a navigare anche se sballottati dal vento, dalla pioggia, dalle onde. Loro avevano continuato a nutrire la loro Musa. Lui no. E non c’è peccato più grande, per una Musa, di essere abbandonata.
Ora, semplicemente, gli stava restituendo il favore.
Mark provò a risolvere la cosa in tutti i modi: dipingendo partendo da un piano dell’opera, partendo in totale improvvisazione, copiando altre opere, copiando e tentando di aggiungere un suo tocco personale, appoggiando il pennello sulla tela e semplicemente tracciando strisce di colore a caso. Niente funzionò, se non per ritrovarsi a bruciare nel giardino di casa sua una miriade di opere incomplete e senza alcun valore artistico.
Non si arrese. Era uscito da una situazione molto brutta e aveva sviluppato una certa autodisciplina, lungo la strada. Ogni mattina e ogni pomeriggio si metteva davanti ala sua tela o al laptop e semplicemente provava.
Ogni mattina.
Ogni pomeriggio.
Per sette mesi.
Inutilmente.
Niente di quello che aveva tentato nella sua vita lo aveva preparato a questo, e ora si trovava in un vicolo cieco da cui non riusciva a uscire. A parte il fatto di non avere un altro lavoro con cui mantenersi e la perdita della sua fama (a cui però si rendeva conto di non tenere granché), il problema principale era sentire il buco che si era aperto nella sua vita e nella sua anima. L’Arte, la pittura, il disegno, erano una parte di lui, e vederle sparire così era come alzarsi un mattino e non trovarsi più il braccio destro.
La disperazione lo avvolse e fu a un passo dal ricominciare a intossicarsi con alcool e droghe. Acquistò addirittura la sua prima bottiglia di vino da un anno a quella parte, ma poi la rabbia verso se stesso e le sostanze che lo avevano portato in quel baratro prese il sopravvento e svuotò tutto nel lavandino, disgustato.
Decise di consolarsi, almeno parzialmente, visitando una fumetteria nei pressi di casa sua. Non che fosse un nerd appassionato di fumetti, ma sapeva di diversi artisti che avevano seguito quella strada. Era il momento di provare a scoprire le valenze artistiche di quel medium mai davvero apprezzato.
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L’Arte contenuta in alcuni fumetti gli aprì gli occhi sulle molte possibilità che offriva questo mezzo di comunicazione, e gli fece realizzare cosa si era perso fino a quel momento.
Ci fu però un’opera che gli cambiò davvero la vita: Sandman di Neil Gaiman, e in particolare l’episodio intitolato Calliope. In questa storia la Musa è un essere reale, ed è schiavizzata prima da uno scrittore, poi da un altro, per poter ricevere l’ispirazione di cui hanno bisogno per creare le loro opere. La storia poi andava avanti, ma la cosa fondamentale che colpì Mark era che la Musa potesse essere vera, potesse esistere. A ben pensarci la cosa aveva senso, no? Dopotutto lui non era stato abbandonato a se stesso e non aveva perso ogni tipo di ispirazione? Non era quantomeno possibile che il problema fosse che la sua Musa se ne fosse andata alla ricerca di qualcun altro più disponibile, qualcuno che non si era perso nei vortici di feste, droghe e altri impegni?
E se così era, come sarebbe stato possibile trovarla e obbligarla a tornare indietro? Ovviamente lui non voleva obbligare nessuno, ma se l’avesse trovata avrebbe almeno provato a convincerla che ora era più meritevole, che ora poteva creare, che lui c’era!
Più ci pensava, più si convinceva che quel fumetto avesse una base reale, e che le Muse esistessero davvero. Studiando quello che era stata l’arte e gli artisti fino a quel momento, vedeva come ci fossero dei cicli nelle vite di chi creava, e dei cicli anche nella Storia stessa.
I cicli però non erano sempre presenti, ciò che notava lui non aveva quell’unica spiegazione univoca che voleva dimostrare, e probabilmente questa sua ossessione era solo un sintomo di una malattia mentale incipiente.
Nonostante questo lui iniziò a crederci, e ci credette con tutte le sue forze, perché era l’unica cosa che gli dava speranza e lo spingeva ad andare avanti in quella vita che ora non riconosceva più. Speranza di ritrovare la sua Musa e di convincerla a tornare. Speranza di tornare a creare.
Da dove partire però?
Non c’è un elenco telefonico delle Muse e nemmeno le trovi su Google. Mark quindi si accinse a fare un lavoro diverso da quello fatto finora. Studiò la vita di tutti gli artisti ancora vivi. Tutti. Era un compito immane, ma l’obiettivo lo richiedeva. Quello che cercava era però facile da trovare: quelli che gli interessavano erano tutti quelli che avevano avuto un periodo di stasi in cui non avevano più prodotto nulla e che avevano però ripreso dopo anni con ancora più energia ed efficacia. Per semplificarsi le cose restrinse le sue ricerche solo al mondo delle arti figurative, ma già così la missione si presentava lunga e difficile.
In questo caso però Google e Wikipedia furono fondamentali, oltre ai suoi numerosi contatti nell’ambiente. Venne fuori, infatti, che una situazione come la sua non era poi così strana, ma che vederla poi risolta con successo era invece molto più raro. Dovette cercare a lungo, prima di trovare tre o quattro casi di pittori come lui che avevano sofferto una lunga pausa, ma che poi avevano ricominciato con grinta e ottimi risultati dopo anni. Tramite i suoi conoscenti riuscì a contattarli tutti e quattro e a ottenere un incontro.
Non mentì a riguardo dei motivi che lo spingevano a chiamarli: tutti loro furono assolutamente comprensivi e accettarono di incontrarlo di buon grado. Non se lo sarebbe mai aspettato, a dire la verità, in un ambiente dove spesso l’invidia e la competizione la fanno da padrone. Il “dramma” di non riuscire più a creare però era qualcosa che probabilmente, una volta sperimentato, rendeva più empatiche le persone.
Oppure aveva avuto fortuna di trovare gli unici quattro artisti gentili della sua vita.
In ogni caso con tre di loro fu un buco nell’acqua. Tutti gli dissero della loro esperienza e di come se ne erano tirati fuori con un mix di testardaggine e di menefreghismo. Testardaggine nel continuare a provarci, anche quando sembrava non funzionasse, e menefreghismo dei risultati: l’importante non era la perfezione dell’opera, ma semplicemente divertirsi, esprimersi, togliendosi di dosso tutte le pressioni esterne.
Il quarto era la sua ultima speranza, ma dopo averlo incontrato si ritrovò punto e a capo. Lui addirittura gli rivelò che non era mai riuscito a riprendere davvero: le opere che aveva mostrato al pubblico dopo essere ritornato sulla scena altro non erano che vecchi quadri mai esposti e che lui usava ora per mantenere il suo stile di vita, fingendo di essere ancora un grande artista. Lo capiva, e per questo gli rivelava il suo segreto (facendogli però giurare di tacere), ma non poteva aiutarlo.
Mark era sempre più depresso e davvero iniziava a perdere ogni speranza. Poi ricevette la telefonata di uno dei primi tre con cui aveva parlato. Il tipo si chiamava Roberto, ed era quello dei quattro che aveva uno stile più vicino al suo, con frequenti puntate nell’astratto più spinto, ma anche nella rappresentazione di scene alla Dalì che erano diventate il suo marchio di fabbrica.
Roberto gli chiese di tornare a trovarlo, e Mark ovviamente ci andò di corsa. Quello che sentì quel giorno fu l’equivalente di essere precipitato in una delle sue opere più strane.
– Allora, perché mi hai richiamato? –
– Perché mi rivedo in te e so benissimo quale storia ti racconteranno gli altri: dedizione, smettere di pensare alla perfezione, tentare di divertirsi e non cercare il risultato e blablabla. È quello che ti avevo detto anche io, dopotutto. Questo dovrebbe farti uscire dal blocco artistico in cui sei ora, ma la verità è che a te non servirà a un cazzo. –
– Non è che mi dia molta speranza… –
– No, appunto, e non voglio dartene. Chi di loro si è “sbloccato” in questo modo aveva a che fare solo con problemi suoi, psicologici o spirituali. Ritrovare il loro “centro”, come dicono nello yoga, è stato sufficiente ad aiutarli. Ma tu, io ti ho parlato, si capisce subito che il tuo non è un problema del genere. Tu hai perso la tua Musa. –
Mark fu quasi trasfigurato dal sentirlo dire a voce alta e da qualcuno che non fosse lui.
– Sì! Sì! È proprio quello che sento, quello che provo. Non ho più quella spinta creativa, non la sento più al mio fianco! –
– Lo so. Ci sono passato, e quando ti ho visto ho riconosciuto subito la disperazione che provavo anche io. Altro che paranoie e disturbi psicologici di piccoli artisti viziati. Questo è un problema, non le pare di cui si riempiono la testa quei piccoli stronzi. Non molti ne escono, sai, Mark. Io sono una rarità, e solo perché ho deciso di fidarmi di qualcosa di totalmente inaffidabile e di fare cose che a prima vista non avevano molto senso. –
– Che cosa vuoi dirmi? –
– Ad essere sincero non volevo dirti nulla, ma poi ho sentito che stavi incontrando anche altri “colleghi” che avevano avuto situazioni simili e ne erano usciti, e ho capito quanto disperato sei. Non sono sicuro nemmeno ora di fare bene, ma ho visto le tue opere e… mi ha colpito il cuore che c’è dietro. Meriti di crearne ancora. –
– Che cos’è che devi rivelarmi di così pazzesco? Dimmi! –
– Le Muse esistono, e le Muse ti abbandonano, se non ti curi di loro, di questo penso te ne sia accorto, ormai. –
– Sì, purtroppo. –
– Quando perdi la tua Musa ti sembra quasi di perdere ogni significato, ogni senso alla tua vita. Ti trascini, vai avanti, a volte ti sembra anche di stare bene, ma se ti manca quella parte di te stesso, sarai sempre vuoto. –
Mark annuì.
– Lo so che lo sai, lo vedo. È qui allora che devi capire a che punto sei disposto ad arrivare pur di riavere indietro la tua Musa, pur di poter creare ancora. –
– A quello che serve. Non ucciderei per ritornare ad essere quello di prima, quello non potrei mai farlo, ma per il resto…sono pronto a fare quello che bisogna fare. –
– Non servirà arrivare a cose così drammatiche come uccidere. Ma tu, rischiare e rischiare grosso? Quello sì. –
– Dimmi quello che devi dirmi. Io sto ascoltando. –
Parlarono a lungo e la capacità di credere di Mark fu spesso messa alla prova, ma ormai il salto di fede lo aveva fatto. Sapeva cosa gli era successo e sapeva che qui si stava davvero parlando di ritrovare un essere o una forza soprannaturale che gli aveva dato l’ispirazione fino a poco tempo prima, ma che ora lo aveva abbandonato. Non si aspettava di sentire quello che sentì, ma doveva ammettere che aveva senso.
Alla fine del colloquio ringraziò e se ne andò a casa, dopodiché prenotò un aereo per il giorno successivo.
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Il viaggio in aereo fu lungo, ma non fu la parte peggiore.
La parte peggiore fu quando dovette scendere e scoprì che c’erano altre centinaia di chilometri da fare in treno. O quando, sceso dal treno, dovette salire su un autobus scalcinato e affidarsi alla buona sorte per arrivare in uno dei villaggi della regione. O quando, giunto lì, dovette convincere gli abitanti del luogo a portarlo nell’accampamento di chi stava cercando. L’interprete che era con lui si rivelò fondamentale, ma nonostante questo gli abitanti di quella zona sperduta della Mongolia erano lo stesso sospettosi. Li capiva, naturalmente: un occidentale che pretendeva di trovare una delle ultime tribù nomadi della zona, per motivi sconosciuti, non era di sicuro il benvenuto. Ma i suoi soldi sembravano essere più simpatici di lui, perché le persone si aprirono molto di più quando il contante iniziò a girare.
Riuscì a ottenere quello che voleva, alla fine, assicurando tutti di non avere intenzioni malevole, dimostrando di non avere armi, ma soprattutto convincendo il capo del villaggio. A lui dovette raccontare la sua storia per poter avere il permesso di farsi accompagnare nell’accampamento che cercava. E lui sembrò capirlo, o non avrebbe mai potuto arrivare a incontrare la persona che era venuto a cercare.
Nomadi da prima che il tempo si iniziasse a contare in anni, la tribù che lui voleva trovare era senza nome. Gliene aveva parlato Roberto, esattamente come gli aveva detto che l’unico modo per raggiungerli era con l’aiuto degli abitanti dell’ultimo villaggio prima delle steppe. Lontani parenti dei nomadi, questi li aiutavano nelle relazioni con la società esterna quando capitava che ce ne fosse bisogno, e cioè non molto spesso. Nella maggior parte dei casi, la tribù era autosufficiente e vagava per le pianure e le steppe della Mongolia, indisturbata. Quelli del villaggio però sapevano come trovarli in caso di necessità, ed era su questo che si basava il piano di Mark.
Ottenuto il benestare del capo, lui e l’interprete furono invitati a salire su due dei loro cavalli, per essere poi scortati alla ricerca della tribù senza nome. Mark ringraziò mentalmente per quelle poche lezioni che aveva preso per imparare a cavalcare ai vecchi tempi. Qui nessuna delle sue guide sembrava nemmeno considerare che uno potesse non essere in grado di andare a cavallo, e davano per scontato che le seguissero senza problemi.
Nonostante riprendere a cavalcare fosse stato un po’ come andare in bicicletta (anche grazie al cavallo, docile come pochi), farlo per un’intera giornata mise a dura prova le sue abilità, e le sue chiappe. Quando si fermarono per la notte, Mark ne fu estremamente felice, anche se il fatto di fare pausa per dormire significava che ancora non erano arrivati, e che quindi ci sarebbero stati altri giorni così. Al solo pensiero il suo osso sacro presentò formale protesta, minacciando lo sciopero. Soluzioni alternative però non ce n’erano, per cui poté solo abbozzare.
Il viaggio alla fine durò, come si confà ad una storia di quelle serie, tre giorni e tre notti. Il quarto giorno fu quello in cui, verso l’ora di pranzo (o quella che la sua fame identificava come ora di pranzo), finalmente arrivarono in cima ad una piccola collina. Nella vallata che si stendeva oltre quell’altura, Mark poté finalmente scorgere le tende della tribù che erano venuti a cercare.
Quando scesero, le persone che incontrarono sembravano sapere già di cosa fossero alla ricerca. Probabilmente erano stati avvisati prima o forse gli unici contatti con persone esterne erano sempre per lo stesso motivo. Il loro spirito di accoglienza veniva comunque prima di tutto, e per questo vennero invitati in una delle loro tende (se così si chiamavano) per essere rifocillati. Mark nel frattempo si guardava attorno e registrava tutto. La sua capacità di osservazione non si era affievolita, anche se non riusciva più a tradurre su tela quello che vedeva nella realtà. La cultura, le tradizioni che traspiravano da ogni gesto, da ogni movimento, da ogni parola e da ogni offerta delle persone che li avevano accolti, erano affascinanti, e lui beveva con gli occhi tutto ciò che gli stava succedendo attorno.
Dopo quella che sembrò una lunga ora, finalmente Mark e il suo interprete vennero portati al cospetto del capo della tribù. L’occhio dell’artista notò subito le somiglianze con il capo del villaggio che avevano lasciato da poco: quei due erano strettamente imparentati, e si vedeva. Fratelli, o al massimo cugini.
Cosa sarebbe successo glielo spiegò l’uomo di fronte a lui, per chiedergli se fosse certo di voler proseguire. Roberto però gliene aveva già parlato, e la decisione era presa. Sapeva a cosa andava incontro, anche se nessuno dei due era stato in grado di descriverglielo davvero. Sapeva che sarebbe stato un viaggio e sapeva che avrebbe rischiato la vita e la mente, in questo viaggio. Non gli importava. Rivoleva la sua Musa, ed era pronto a fare quello che c’era da fare, pur di riaverla.
Il capo, che mai gli disse come si chiamava, non perse tempo. Quello che avrebbero fatto era parte delle loro tradizioni da sempre e normalmente non sarebbe stato “aperto al pubblico”, ma ora le diverse necessità del mondo che avanzava li avevano costretti a piegarsi. Quando più i bisogni della tribù si facevano sentire, si decideva di accogliere la richiesta di uno dei postulanti che giungevano al villaggio, a pagamento. E postulanti ce n’erano sempre, prima o dopo, perché la storia di quello che potevano fare girava nei giusti circoli da anni. Come Roberto aveva fatto con lui, anche altri avevano fatto lo stesso e il passaparola continuava da decenni.
– Così tanti perdono la loro Musa e poi si rivolgono a voi per poterla richiamare a sé? –
Il capo ascoltò l’interprete tradurre quello che aveva appena chiesto Mark, poi disse:
– Il viaggio che farai non esiste solo a quello scopo. È per questo che dovrai fare attenzione a non perderti. Per qualcuno è più rischioso, per altri meno. A volte dipende dalla volontà che è nascosta dietro alla ricerca dell’obiettivo, a volte dalla flessibilità, invece. –
Mark ascoltò la traduzione, non capì comunque cosa volesse dire, e decise di disinteressarsene. Non aveva nemmeno capito tutto quello che gli aveva detto Roberto ad essere sinceri, ma una cosa era certa: non ci si poteva preparare a quello che avrebbe dovuto affrontare, perché per ognuno il viaggio era diverso. Sarebbe un viaggio tanto fisico, quanto mentale, in cui avrebbe potuto reincontrare la sua Musa per davvero, se fosse stato abbastanza coraggioso e pazzo. E se avesse mantenuto la sua sanità mentale, allo stesso tempo, per quanto paradossale fosse il discorso.
Il capo della tribù decise che era il momento di procedere. Lo fece condurre in un’altra tenda e lo fece svestire. Poi, con l’assistenza di quelli che sembravano degli anziani sacerdoti, lo preparò.
Dipinsero la sua pelle di mille colori, prendendoli da ciotole di argilla e paglia che avevano già distribuito in tutta la tenda. Mentre lo facevano iniziarono tutti a mormorare una melodia ipnotizzante, che assomigliava molto al canto di un alveare. Uno di loro accese un fuoco, il cui fumo, si accorse Mark, si disperdeva attraverso un buco sulla sommità della tenda. Non abbastanza, però, e dopo un po’ l’aria iniziò ad essere irrespirabile. Fu in quel momento che il capo prese un’altra di quelle ciotole e ne rovesciò il contenuto sopra il fuoco. L’aria divenne all’improvviso più dolce e per nulla fastidiosa. Mark si rese conto che il capo stava uscendo, mentre man mano tutti gli anziani rovesciavano sopra il fuoco una ciotola di quella che sembrava polvere colorata, per poi uscire anche loro. L’aria sembrava cambiare consistenza e sapore ad ogni nuova aggiunta, e mentre la respirava Mark sentiva la sua mente che iniziava a stirarsi, contraendosi e avanzando e cambiando e spingendo e volando e.
E.

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I colori sono dietro i suoi occhi. Il lupo lo sta fissando. Il prurito alla pelle emette un suono fastidioso, mentre un colibrì danza vicino ad uno stagno rosa.
Alza una mano per togliersi i colori di dosso, mentre dall’altra parte sorge un sole e una luna collassa nel pavimento di una stanza con i quadri appesi storti. Avanza per raddrizzarli, ma i dipinti svaniscono prima che lui li possa toccare, e questa sparizione sembra uccidergli l’anima di dolore.
Davanti a lui appare una volpe che fa a tempo a dire “Verde!”, prima di scappare dietro a una siepe appena cresciuta. Il bordo del mondo si curva. Un tentacolo oscuro appare, poi esplode in un nuovo sole blu.
La lince lo guarda, lancia la sua sfida silenziosa, il cielo diventa rosso, un orologio si piega e un alligatore avanza sulla riva di una palude violacea.
Niente ha senso e tutto ha senso ed è quando si rende conto di questo che ritorna una parte della sua coscienza di sé.
Lui è lì per un motivo, in quel mondo in continuo cambiamento in cui tutto sembra deformarsi e trasformarsi senza soluzione di continuità. Lui è lì per un motivo, se lo ricorda, anche se non si ricorda bene neppure chi sia lui.
Tenta di guardarsi attorno e di guardare se stesso. Continua a perdere il senso del tempo e a non capire. Ciò che vede lo continua a travolgere.
Davanti a lui farfalle iridescenti volano tra fiamme e nuvole e mari di ghiaccio. Alle sue spalle un ruggito, ma quando si volta il panorama è ora un deserto di sabbia grigia e in lontananza vede cavalcare un ippogrifo che poi spicca il volo nel cielo che ora è diventato azzurro.
Come dovrebbe essere normalmente, pensa.
Ma cos’è normale? E lui come fa a saperlo? Continua ad ammirare, vedere, farsi tramortire di visioni, poi affiora un altro pensiero.
Chiudi gli occhi.
Lo fa, e all’improvviso dentro di lui torna la calma. All’improvviso c’è un lui e c’è un mondo esterno e riesce a capirne la differenza. Riesce a ricordare, anche se confusamente, chi è e forse anche cosa sta facendo.
Tiene gli occhi chiusi, temendo ora il momento in cui dovesse riaprirli, temendo di perdersi di nuovo. Cosa fare, ora? Adesso ricorda cosa sta cercando, ma non ha la minima idea di come fare a raggiungerla. Non ha la minima idea neppure di come ha fatto ad arrivare fin là, anche se ha un lontano ricordo di una tribù e di una serie di rituali e di fuoco e di fumo. Non è importante, però, ora. Deve capire come trovare la sua Musa (ecco come si chiama) e poi come tornare indietro al suo mondo. Quest’ultima fase lo riempie di preoccupazione, ma non può lasciarsi prendere dalla paura. Deve fare un passo alla volta.
Si rende conto che dovrà riaprire gli occhi, se vuole proseguire, e ne è terrorizzato. Non ci sono altre soluzioni, però.
Concentra dentro di sé tutta la sua volontà e ci avvolge tutto il suo essere, per tentare di renderlo impenetrabile a quello che vedrà al di là delle sue palpebre.
Apre gli occhi.
Il deserto che si estende di fronte a lui è nero, ed eterno. Nel cielo scuro brilla una luna enorme che sembra voler scendere a toccarlo. Nulla si muove, tranne un leggero vento che gli scompiglia i capelli. Mark (mi chiamo Mark) si rende conto di essere ancora se stesso e di essere perfettamente cosciente di tutto. Non perde tempo. Rinforza la sua volontà, rinforza la sua essenza dentro di sé e parte. Non sa in che direzione camminare, ma sa che in quel luogo non esiste una direzione più giusta di altre. Saranno la sua mente e la sua energia a spingerlo verso il luogo giusto, quello dove si trova la sua Musa adesso.
Avanza e il profumo del deserto lo avvolge. La sabbia è abbastanza solida da permettergli di camminare senza problemi, ed è così, un piede avanti all’altro, che procede. Il mondo non cambia più, i colori non cambiano più, e lui procede, ora con meno timore.
Una sola cosa c’è nella sua mente, ed è la sua Musa. Deve ritrovarla, deve raggiungerla, deve convincerla a tornare, deve ridare un senso alla sua vita. È per questo che inizialmente non presta attenzione al prurito che sente alle dita. Se ne accorge solo quando diventa più forte e finalmente lo riconosce.
È quella sorta di prurito fantasma che lo prende quando ha un’idea per un quadro e, prima di mettercisi, la lascia girare nella sua mente per un po’, prendere forma, ingrandirsi, spingere per uscire. Quando è così grande da non farcela più a tenerla, quando si sente davvero “gravido” e deve lasciarla venire al mondo, ecco, lì inizia il prurito alle dita. È come se le sue mani anelassero a stringere il pennello, a creare.
Risentire quella sensazione adesso è stranissimo, dopo tutto quel tempo e soprattutto in quel luogo. Non ha nessuna idea di dipingere, in testa, ma forse sa come mai sta accadendo.
La sua Musa.
La sua Musa deve essere lì vicino.
Continua a camminare nel deserto, l’eccitazione che aumenta dentro di lui di pari passo con il prurito alle dita. La luna illumina la sua via e lui vede benissimo fino all’orizzonte, ma non vede nessuno che lo stia aspettando. Cammina e cammina, ma il paesaggio non cambia.
I dubbi cominciano ad assalirlo, e in quel mondo non può avere dubbi, se vuole uscirne vivo.
Forse la sua Musa non lo sta aspettando. Forse lo ha abbandonato definitivamente per qualcuno di migliore, qualcuno che se ne prende cura e ogni giorno la nutre. Forse è destinato a vagare in quel deserto per sempre.
No. Io non rimarrò intrappolato qui. Io troverò la mia Musa e quantomeno riuscirò a incontrarla, a parlare, a capire. Non mi fermerò e non avrò paura.
E poi è dentro una stanza, una stanza enorme e che riconosce subito. È al Louvre, nell’area dedicata ai pittori francesi e, al contrario di ogni volta in cui ci è andato per davvero, è deserta. Anzi no, sull’ultima panchina vicino alla porta di uscita vede seduta una persona.
Si avvicina. È una ragazza, con un paio di pantaloni da hippie arancioni e neri, una maglia bianca semplice e delle collane che si intrecciano al collo. I capelli sono scuri, gli occhi chiarissimi, la pelle leggermente olivastra. La sua bellezza non è di quelle che ti lascia a bocca aperta, questo è certo.
Poi lo vede e sorride, e Mark rischia di perdere l’equilibrio e il cuore e la mente e ogni parte di sé. È come se gli fosse apparso davanti un nuovo sole, come se gli si fosse aperto un burrone sotto i piedi, come se lo stomaco avesse fatto un giro su se stesso, come se il tempo si fosse fermato.
Un sorriso come quello può uccidere.
– Ciao Mark, – dice la ragazza.
Lui deglutisce un paio di volte, prova a prendere fiato e dopo qualche tentativo riesce a proferir parola.
– Ciao… ma tu chi sei?
– Lo sai chi sono. Mi sei venuto a cercare da molto lontano.
– Sei la mia Musa?
Lei aggrotta le sopracciglia, ma poi sorride di nuovo e Mark deve sedersi per non cadere.
– Io sono la Musa, ma non sono di nessuno. Lo capisci, questo?
Ancora in difficoltà con le parole, lui può solo annuire. Lei continua e va dritta al punto.
– Io non appartengo a nessuno, ma ogni tanto scelgo di accompagnare qualcuno. E se ti accompagno, l’unica cosa che mi aspetto da te è che continui sulla strada della Creazione, null’altro.
– E io ho smesso di farlo.
– Esatto, tu hai smesso e per quanto io ti abbia atteso, non sembrava saresti tornato mai. Il mio compito, il mio unico motivo di esistere, è fare in modo che la Creazione non finisca mai. Io sono vicino ad ogni Pittore che sta dipingendo, ad ogni Scultore, ad ogni Artista. Lo Scrittore che sta scrivendo un libro mi ha al suo fianco, come anche l’Artigiano che sta finendo di intagliare una sedia, ma anche il Disegnatore che sta creando un fumetto, o l’Architetto che sta progettando una casa. Parte di me è con la nonna che sta facendo una maglia per la sua nipotina, con il regista che sta girando un film, con l’attore che si sta esibendo su un palco, con il musicista che sta componendo una canzone. Dove c’è Creazione, ci sono io.
– E non può esserci Creazione senza di te.
Lei ride e il suono della sua risata gli fa sentire le farfalle nello stomaco e per un attimo crede di svenire. La sua presenza è troppo e lui si trova a chiedersi come sarebbe essere baciato da una Musa. Anzi, dalla Musa.
– In verità se guardi bene, vedrai che è più spesso vero il contrario. Persone che creano cose non per il semplice motivo di Creare, ma per ottenere soldi e potere e che fingono di essere ispirati da me. Ma è abbastanza facile capire la differenza tra quello che fai per denaro e quello che fai per te stesso, non credi?
Non aspetta una sua risposta, ma continua. Lui in ogni caso farebbe fatica ad esprimere qualcosa di più di qualche suono senza senso.
– Tu mi hai perso perché sei andato alla ricerca di altro. Volevi il Divertimento e l’Ozio più di quanto volevi Creare. Hai scelto di essere Occupato, Impegnato, e non avevi più spazio da dare a me.
Mark fa uno sforzo e riesce a riprendersi quanto basta per rispondere.
– Sì, è vero, ma me ne sono reso conto. Ero occupato, ero impegnato, ero divertito, ma ero vuoto. Lo sono tuttora, senza poter creare davvero. È per questo che ho provato a ricominciare, ho provato a riaccendere la scintilla, ho riaperto la porta, ho tentato e ritentato. Ogni cosa che ho fatto però è vuota come me, non ha significato, non ha forza, non ha nulla. Speravo che provando e riprovando tu tornassi. Ma non sei tornata.
– Io non torno mai, Mark. Anche se altri possono averti detto qualcosa di diverso, hanno mentito: io non torno mai. Se tu perdi la tua occasione, se non sfrutti il tuo momento, io devo portare la Creazione nelle mani di qualcun altro. Per quanto possa piacermi la persona con cui sono in relazione, il mio compito è più grande, e non guarda in faccia a nessuno.
Queste parole sono come pugnali che si piantano lentamente nel cuore di Mark. Sente d’improvviso il peso della stanchezza di tutto quello che ha fatto finora per arrivare a quel momento. Sente il peso della sconfitta che gli si deposita sulle spalle e che lo schiaccia a terra. La Musa esiste davvero, aveva ragione, ma non vuole più avere nulla a che fare con lui. Non potrà più Creare, e quindi la sua vita non potrà più avere il suo Senso più vero.
Quasi come se gli leggesse nel pensiero (e perché non potrebbe, dopotutto?), la Musa riprende a parlare.
– Non c’è solo la Creazione, al mondo. CI sono anche altre cose a cui ti puoi dedicare. Non sono mica tutti Creatori, o no? Serve anche qualcun altro, che faccia tutto quello che serve per mandare avanti le cose. Tu puoi essere uno di loro, tu puoi dare il tuo contributo. Non è una cosa malvagia, anzi. Il loro ruolo è fondamentale tanto quanto lo era il tuo. C’è sempre nobiltà in chi segue uno Scopo più grande di se stesso, che il suo lavoro sia ispirare gli altri con la sua Arte o darsi da fare in un ospedale, o educare i bambini, o coltivare la terra. Quando fai qualcosa che è un servizio agli altri, se lo fai con passione e impegno c’è sempre Nobiltà e Significato.
– Sì, ma…
– No, Mark. Questo lo devi capire: la tua vita non è finita ora che non puoi più Creare. Tu puoi essere ancora utile, puoi avere ancora un Senso, se lo vuoi. La tua spinta interiore può trovare altre strade per riempire la tua anima. È chi non fa nulla e non cerca nulla che non ne avrà mai uno, e vivrà sentendo sempre un vuoto dentro di sé. Chi si trascina di giorno in giorno, guardando solo a se stesso, al suo divertimento o al suo guadagno o alla sua miseria, senza mai tentare di andare oltre. Un po’ come hai fatto tu in questo periodo, no?
E gli fa l’occhiolino, sorridendo.
Mark non ha molta voglia di sorridere. Non sa se questo sia solo un sogno indotto dalla droga che probabilmente si è respirato con quegli sciamani, ma non era questo che si aspettava, e di sicuro non era questo che voleva. Si sente demoralizzato oltre ogni dire, si sente preso in giro, si sente… incazzato. È quasi con stupore che si rende conto della cosa, ma questo non significa sia meno vera.
– Ho capito quello che vuoi dire, e sono d’accordo su tutto, ma io voglio Creare. Il resto può anche interessarmi farlo come servizio agli altri, ma non è e non sarà mai il mio Scopo principale, lo capisci? Non ti ho dimostrato con abbastanza forza quanto sia disposto a fare per riavere la mia ispirazione? Sono venuto fino in capo al mondo, per te! Non ti sembra sia abbastanza motivato? Non ne esistono di altri così motivati!
La Musa lo guarda, quasi con pietà.
– A Juarez, in Messico, c’è un ragazzo di ventitre anni che ha perso l’uso di un occhio per colpa di una pallottola vagante durante una rapina, ma che continua e continuerà a dipingere anche se dovesse perdere l’altro. A Toowoomba, in Australia, c’è una donna di quarantasette anni che sta combattendo il cancro da ormai tre anni, ma questo non la ferma dal voler finire il suo romanzo storico su due aborigeni durante la seconda guerra mondiale. Ad Adrigat, in Etiopia, una ragazza combatte ogni giorno per poter disegnare, anche se ha a malapena i soldi per comprare la carta e le matite. Ce ne sono molti di motivati quanto te. Molti lo sono ancora di più. Molti sentono bruciare dentro di sé la passione così forte che neppure sanno immaginare la loro vita senza Creare. Ne sono ossessionati. Vivono solo per quello. Tu sei mai arrivato a quel punto? Tu hai rinunciato alla tua Arte appena sei stato tentato da feste e droghe e “impegni”. Tu non hai la passione che brucia dentro di te. Non c’è. Forse c’era, forse non c’è mai stata. Ma la vedi la differenza tra te e loro? Tu sei qui che implori l’ispirazione di tornare, loro al contrario devono creare, devono lasciare uscire quello che hanno dentro. Non si chiedono nemmeno se ci sia o no una Musa, loro bruciano e basta. Ne hanno bisogno, è parte di loro. Per te non è più così. Se lo fosse, non saresti qui. E io non posso aiutarti.
Mark sente tutta la rabbia che lo animava sgonfiarsi. Sente la speranza che lo spingeva affievolirsi e morire. Sente l’energia che lo riempiva sparire, lasciandolo perso, sconfitto, morto.
Non c’è niente per lui, qui. Tutto quello che ha fatto: inutile. Tutto quello che ha cercato: inutile. Tutto il tempo che ha perduto: inutile.
E la cosa peggiore è il pensiero che forse era vero. Forse quel bruciare era sparito già da un bel po’. Forse da ben prima di iniziare con le feste e la bella vita. Forse aveva perso la sua Musa perché non la meritava più ed era inutile ora che tentasse di riaverla. Era perduta, ed era per sempre.
China la testa, china le spalle. Riesce però a fare prima un mezzo sorriso.
– Almeno per un po’, è stato divertente.
Anche la Musa sorride.
– Lo è stato.
Mark chiude gli occhi su quel sorriso.
—
Quattro mesi dopo il peggio comincia a passare. Quanto più facile è vederlo scritto in un libro o sullo schermo di un cinema, però.
Quattro mesi dopo.
E nessuna indicazione di quanto ognuno di quei giorni sia stato un inferno da vivere, di quanta fatica andare avanti, di quanto sudore, di quanto dolore.
Quattro mesi dopo.
E puoi iniziare a parlare delle cose che vanno meglio, finalmente. E quanto pesa quel finalmente lo sa solo chi lo sta vivendo.
Quattro mesi dopo la vita comincia ad assumere di nuovo sapore, vivere ha di nuovo un qualche senso e Mark ricomincia a permettersi qualche momento di piacere. Trovare un nuovo baricentro, dopo che si è vissuti con solo una cosa al centro di tutto, non è facile.
Lui ce la fa, grazie soprattutto ai suoi amici, quelli veri, quelli che dopo il suo ritorno lo accompagnano, lo tirano su, lo aiutano a scoprire che può fare qualcos’altro della sua vita, ora. E che se lo decide lui, può anche non essere la fine del mondo.
Inizia a provare nuovi lavori quasi da subito, ma ci vuole un po’ prima che trovi il suo ritmo e il suo posto. Alla fine scopre che non è male lavorare con la gente e finisce a fare l’impiegato delle assicurazioni. Che razza di parabola, a ben pensarci. Però comincia a stare meglio, comincia a vivere meglio, comincia ad essere più sereno.
Si lascia cullare in quella che è la vita che non aveva mai provato, fatta di lavoro in ufficio, pause pranzo, birre con gli amici, qualche uscita nel week end e un po’ di volontariato. Niente di particolare, niente di entusiasmante, ma per la sua anima è il balsamo che attendeva, quello che, piano, sempre piano, lo porta a stare meglio.
Dimentica per quel che riesce. Tenta di lasciarsi alle spalle il suo passato. Ma tu non dipingevi? No, non lo faccio più. Ogni tanto sogna ancora quello che ha vissuto nel suo viaggio, sogna ancora la sua Musa, il suo sorriso. Si sveglia ogni volta con le lacrime agli occhi, ma non può fare altro che tentare di riprendere sonno, anche se spesso si ritrova a fissare il soffitto per ore, prima di riuscire a riaddormentarsi. Si dice che passerà, ma per adesso non passa ancora e lui deve andare avanti e sopravvivere come ha fatto fino ad adesso, un passo alla volta.
Non è così male, dopotutto, si dice, e lo pensa davvero. Di sicuro quello che ha vissuto gli ha portato in dono un equilibrio che non ha mai avuto rispetto alla vita, alle cose importanti e alle persone che ha attorno. E si sente meglio di quanto si sia mai sentito, anche di quando dipingeva: più sereno e quasi in pace con se stesso.
È che ogni tanto sente un buco laddove una volta c’era la sua Arte. Lui sta attento a camminarci attorno, ma qualche volta ci precipita dentro a piè pari e lo sente tutto, il Vuoto che ha lasciato.
Ma va avanti, perché altro non può fare.
E poi, una sera, è a bersi una gazzosa (basta alcol per lui) con i suoi amici in un pub, e mentre parlano e ridono lui comincia a giocherellare con la tovaglietta di carta. Guarda i suoi amici, vede i loro profili, la luce delle lampade, il barista sullo sfondo. Gli viene in mente una delle opere di Edward Hopper e qualcosa gli scatta nella testa. Gira la tovaglietta dalla parte dove non ci sono le scritte, ruba la penna dal taschino della giacca del suo amico e, senza pensare a nulla, comincia a fare uno schizzo della scena che sta vivendo.
Non sta pensando, non sta quasi nemmeno respirando. Lascia semplicemente correre la penna sulla tovaglietta a creare il disegno di tre amici al tavolo di un bar, che poi però, mentre attorno a lui ogni cosa diventa sfocata e il rumore e il chiacchiericcio sembrano abbassarsi di volume, diventa qualcos’altro, si trasforma come un farfalla che d’improvviso prende il volo.
Quando posa la penna i suoi amici hanno smesso di parlare e stanno fissando quello che ha fatto. Per essere un disegno fatto su una tovaglietta di carta, la potenza delle emozioni che trasmette non ne è sminuita per nulla. Quello che traspare è molto di più che quello che si vede. Si respira quasi il calore, l’amicizia.
Ed è calore quello che sente anche Mark, dentro di sé. Calore che non sentiva da tempo, calore che riempie quel vuoto che da così tanto si portava dentro. Forse non vuol dire nulla, forse vuol dire tutto.
Quando ritorna a casa ciò che sente è ormai diventato un bruciore, e l’urgenza di prendere in mano tela e pennello è immensa. Tira giù dalla soffitta i suoi materiali, riprende il suo schizzo e lo trasforma in un’opera d’arte di colori e segni e pensieri ed emozioni. Dipinge fino alle tre del mattino, poi collassa a letto.
Il mattino dopo, quando si alza, ha quasi paura ad entrare nel suo studio. E se si fosse sognato tutto? In sogno ha incontrato anche la sua Musa, potrebbe benissimo essersi immaginato…
No, il quadro è lì, sul treppiede, ed è bellissimo.
Ovviamente il suo è un giudizio soggettivo e di parte, ma il punto è che è bellissimo solo per il fatto di esistere, per ciò che significa per lui aver di nuovo Creato. E quello che sente sulla punta delle dita è proprio il vecchio prurito che lo accompagnava nei suoi periodi migliori, quando la Musa era con lui ogni giorno. Vede chiaramente le piccole modifiche che deve fare al dipinto per renderlo completo. E nel frattempo vede anche un’altra scena che vorrebbe creare subito dopo, una in cui sogno e realtà si fondono come quasi mai succede. Dopo di quella, un’altra ancora, in cui sperimentare qualcosa di diverso. E magari, quando si sarà ben riscaldato, un ritratto di una certa ragazza, di quelle con un sorriso che uccide.
Qualcosa in lui si è sbloccato, e anche se capisce poco di come mai sia successo, ora capisce qualcosa di più di prima.
Era lui ad essere perduto, non la sua Musa. Il suo viaggio fino in Mongolia era servito a fargliela incontrare, ma non era quello lo scopo di tutto. Lo scopo era ritrovare il se stesso che aveva perso nel corso degli anni, quello dentro a cui viveva la sua Musa, quello che bruciava dal desiderio di dipingere le immagini che gli riempivano la testa. E quello che queste immagini le vedeva ovunque girasse lo sguardo.
Ora si rende conto che quello era il motivo per cui non aveva potuto aiutarlo: lei in verità non se n’era mai andata. Lei era rimasta dov’era sempre stata. Era lui che non era più riuscito a trovare la strada per arrivarci.
Ha dovuto riportare la calma nelle acque della sua anima, per riuscire a vederci di nuovo attraverso e poter ritornare ad essere davvero se stesso. Nessuna pressione, nessun obiettivo, solo la voglia di creare e di mostrare al mondo quello che aveva fatto.
Non sa se la spinta che sente dentro significhi che ora tutto è a posto e lo sarà per sempre. Non sa se sia veramente uscito dal tunnel nel quale era rimasto intrappolato. Però, anche se non la vede, sente la sua Musa vicina, e sente che sì, forse le cose tra loro ora sono davvero a posto.
E quello che ha capito stanotte, mentre dipingeva pensando alla scena al pub e ai quadri di Edward Hopper, è che lui stesso in qualche modo sta diventando una sorta di Musa. Semplicemente facendo quello che meglio sa fare può diventare fonte di ispirazione, esattamente come Edward Hopper ha ispirato lui.
È in questo che si concretizza il suo Scopo di artista, alla fine: essere una luce che doni ispirazione, a creare, ma soprattutto a vedere, a sentire, a comprendere.
L’unica cosa che deve fare è continuare a bruciare.