La parabola del Grande Algoritmo

Tutto cominciò con il bisogno di essere visti, con il bisogno di essere ascoltati.

Tutto continuò con la paura di perdere il proprio pubblico o di non riuscire nemmeno a trovarlo, un pubblico.

Tutto finì con l’Algoritmo.

Gli artisti, gli intellettuali (o quelli che tali si definivano), i divulgatori, i personaggi pubblici: ognuno di loro iniziò a edulcorare quello che scriveva o diceva sulle varie piattaforme social.

Prima furono le parolacce: si cominciò a non utilizzarle nemmeno quando servivano, per paura di irritare il grande Algoritmo e perdere visualizzazioni. I più ipocriti iniziarono a usare parole in codice: ca77o, m3rd4 oppure il sempre efficace asterisco (c**o), o perfino le emoji.

Poi fu il turno dei termini che potevano essere invisi perché relativi ad argomenti complessi e controversi. E allora via con il codice anche lì: g3n0c1d1o, s1g4r3tt3, m0rt3, e asterischi come se piovesse.

Gli si diede perfino un nome: algospeak. Come se devastare lingue millenarie per superare una censura che noi stessi ci eravamo dati fosse qualcosa di cui andare fieri.

A questo punto, però, tanto valeva evitare direttamente di parlare di certe cose per non rischiare che l’Intelligenza Artificiale sempre più intelligente ti potesse scoprire comunque e ti potesse penalizzare. Come altrimenti fare per poter divulgare alle masse le proprie importantissime opinioni, se fossero state bloccate dal potere dell’Algoritmo?

Si smise quindi di parlare di tutti quegli argomenti che potevano essere rischiosi per la propria reputazione. Se proprio capitava un tema particolare su cui esprimersi, chiunque ne parlasse stava bene attento a non dire mai niente che potesse essere in qualche modo offensivo.

E allora avanti ad opinioni sempre più timide, ad un uso di parole sempre più pauroso, sempre più “politically correct”, anche se quelle che esistevano prima già lo erano. Non sia mai che su cento persone che leggevano un post o guardavano un video ce ne fosse una che si offendesse e lo segnalasse al grande Algoritmo, bannando per sempre l’autore agli inferi della non visibilità.

Anche perché in effetti di gente incapace di comprendere ciò che leggeva e di gente pronta a offendersi senza reale motivo ce n’era in abbondanza.

La perdita vera non era ovviamente nelle masse di ignoranti che pontificavano su argomenti come la microbiologia senza essere nemmeno riusciti a finire le scuole medie. La perdita era nei pochi davvero esperti che potevano divulgare un po’ di cultura e intelligenza, e che erano così bloccati dal farlo, o comunque dal farlo in modo visibile.

E fu così che ci si ritrovò di fatto in un sistema in cui nessuno diceva davvero quello che pensava, nessuno in verità pensava, e ogni cosa, ogni scelta, ogni politica, veniva messa in atto valutando solo l’effetto sul pubblico, sulla pancia delle persone.

L’idiozia cavalcava libera le praterie della società.

Poi arrivò la guerra nucleare, le devastazioni dovute al cambiamento climatico e tutte le conseguenze a lungo termine delle scelte fatte per pura e semplice stupidità e avidità. Allora la gente (quella poca rimasta) si rese conto che nella vita le cose importanti di cui preoccuparsi erano ben altre.

Ma a quel punto era tardi per tornare indietro.

Fine.

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