C’era chi ne parlava, chi avvisava che sarebbe finita male, chi faceva sentire la sua voce.
Li hanno trattati come pazzi, hanno tentato di zittirli o hanno fatto la cosa peggiore che potessero fare: li hanno ignorati. Li hanno trattati come fossero solo rumori in sottofondo: senza valore, che non vale la pena di ascoltare, che non bisogna ascoltare. Rumori in sottofondo da soffocare con musica ad alto volume, luci brillanti e un po’ di fumo per confondere le acque.
Quando sono stati costretti a fare qualcosa, hanno tentato di ingannare il tempo, ritardando gli interventi, parlando di impossibilità del sistema di adattarsi così velocemente come veniva richiesto. Hanno esitato, hanno discusso, hanno perso tempo prezioso, preoccupati dei loro imperi o delle loro poltrone.
Ci hanno fottuto.
Quando il cambiamento climatico è arrivato al punto di non ritorno non c’è più stata alcuna possibilità di parlare, di esitare, di discutere. Non c’è più stato tempo per nulla se non tentare di sopravvivere.
E sopravvivere è quello che abbiamo fatto.
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Ho poco meno di quarant’anni quando le cose iniziano a precipitare.
Non ho mai avuto fette di prosciutto sugli occhi e la crisi climatica non mi ha sorpreso, ma non sono pronto a quello che arriva.
Siccità, carestie, tornado, inondazioni: la furia con cui gli elementi naturali iniziano ad investire il mondo lascia sconcertati anche i più pessimistici di noi. Come fai a ricostruire se dopo un mese c’è un altro uragano? Come fai, se non c’è nemmeno più chi può aiutarti a ricostruire?
I primi anni sono i peggiori, quando ancora tutti provano a tornare a quella che era la normalità prima dell’inizio delle catastrofi. Poi, quando distruzione e morte diventano onnipresenti, sparisce anche quel piccolo residuo di civiltà che sembrava essere rimasto vivo. Rimane solo la fuga alla ricerca di cibo, di rifugio, di posti meno colpiti dai cataclismi. Rimane un’umanità randagia, selvaggia, che si fa strada giorno dopo giorno nella devastazione per tirare avanti un altro po’, per farcela un altro po’. Per vivere un altro po’.
Io ho solo mia moglie Margherita e due figli piccoli, Tom e Giorgio, quando il nostro mondo va a pezzi. Con pochi altri all’inizio proviamo a ritornare all’agricoltura e all’allevamento di sussistenza, facendo base sulle terre che ci hanno lasciato i nostri nonni. Funziona, fino a che un’alluvione non spazza via tutto. Anche ricostruire funziona, fino a che non è un uragano a far sparire quello che avevamo ricostruito. Il colpo di grazia arriva dopo che siamo riusciti a rimettere in piedi le cose per la terza volta. Due anni di completa siccità ci mettono in ginocchio come nient’altro. I raccolti muoiono. Le bestie muoiono. Anche alcuni di noi muoiono.
È allora che iniziamo a spostarci.
Non credo che siamo gli unici ad essere ritornati a questa strategia vecchia come il mondo, ma in verità non sappiamo cosa stia succedendo nel resto del pianeta. Durante i primi tempi c’era ancora elettricità e connessione internet e potevamo conoscere qualcosa di ciò che accadeva oltre l’orizzonte. Ora il mondo è diventato solo quello che vediamo e sperimentiamo ogni giorno, quello che abbiamo davanti agli occhi e null’altro.
Partiamo alla ricerca di un luogo migliore dove poterci insediare, dove non sia così difficile ogni cosa, dove si possa costruire senza la paura di dover svegliarsi di notte con l’acqua che sta portando via il letto su cui stai dormendo. O dove non sei costretto a vedere i tuoi figli morire di fame mentre il sole ne secca la pelle e perfino gli occhi smettono di vedere.
Partiamo, mossi dalla disperazione, più che dalla speranza. E disperazione ne troviamo ovunque, nel corso del nostro viaggio.
È un’impresa che non ha mai fine, la nostra, e che trova un suo significato solo nel fatto di non voler mollare, di non voler arrendersi, perché ormai l’unica cosa per cui combattiamo è la vita dei nostri bambini. Ci spostiamo, troviamo un luogo che sembra fare al caso nostro, proviamo a sistemarci e teniamo duro fino a che il caldo, il freddo, l’acqua, o il vento ci scacciano un’altra volta, devastando quello che abbiamo creato fino a quel momento. Sulle Alpi Carniche riusciamo a rimanere addirittura qualche anno, prima che le cose cambino troppo per permetterci di continuare a vivere anche lì. E allora ci muoviamo di nuovo, calcolando, ragionando e pregando per trovare il prossimo luogo in cui stabilirci.
Nel corso del nostro peregrinare incrociamo altri migranti come noi. I loro racconti mi fanno tornare alla mente La Strada, il libro di Cormac McCarthy che mai avrei voluto vedere diventare realtà. Se solo metà di quello che sentiamo è vero, la situazione in molte zone deve essere abominevole e i morti nel mondo ormai devono essere miliardi. Le città sono state le prime a soccombere e i loro abitanti, ormai incapaci anche solo di riconoscere una pianta edibile da una velenosa sono stati i primi a morire. A volte chi incontriamo prosegue per la propria strada, a volte si unisce al nostro gruppo. Sì, perché noi siamo tra i più fortunati, in questo mondo in sfacelo. Arriviamo tutti da zone di montagna dove ognuno di noi ha avuto modo di apprendere qualche conoscenza utile, dall’agricoltura all’idraulica, all’edilizia, alla vita allo stato brado. Questa combinazione di competenze è quella che più di tutto ci ha salvato, ed è anche il motivo per cui chi incrociamo spesso vuole unirsi a noi.
Non è qualcosa che voglia, ma pian piano tutte quelle persone iniziano a guardare a me per condurli in questo mondo sempre più complicato. Io resisto, all’inizio, perché so benissimo che lascerei morire ognuno di loro se questo significasse salvare la mia famiglia. Questo però non cambia la situazione ed è così che, mentre gli anni passano senza che nemmeno me ne renda conto, mi trovo ad essere leader di un gruppo sempre più grande.
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Le difficoltà, in questo pianeta che sembra sempre determinato a spazzarci via, non arrivano però solo dal meteo. Dopotutto già millenni fa si diceva homo homini lupus, no? Ed è mentre scendiamo dall’altro lato delle Alpi che lo scopriamo sulla nostra pelle per la prima volta.
Siamo preparati a tutto, ma mentre attraversiamo la parte inferiore di uno dei boschi più fitti di quelle montagne, ci rendiamo conto che non siamo abbastanza preparati a questo. Mentre io sto solo pensando al fatto che una boscaglia così fitta indica che ci potrebbe essere un’ottima possibilità di stabilirsi qui, sento uno sparo e all’improvviso sono a terra, con un braccio in fiamme.
Riesco a tirare su la testa in tempo per vedere una ventina di persone sbucare dagli alberi e dai cespugli tutto attorno a noi, urlando e agitando in aria dei machete fatti in casa, pistole e fucili. L’attacco è stato ben congegnato e ci ha colto di sorpresa: alcuni dei miei tentano di rispondere ai banditi, difendendosi, attaccando a loro volta, scappando. Questi ultimi sono quelli che vengono ammazzati per primi, presi alle spalle e trafitti senza pietà. Gli altri riescono a fare gruppo e a resistere, per il momento, ma sarà un momento molto corto, se non mi muovo. Noto, nella nebbia della battaglia, come i banditi tentino di non usare le armi da fuoco se non necessario e questo mi fa pensare di avere una possibilità.
Vedo Margherita tenere dietro di sé i nostri figli, parando i colpi di uno dei banditi usando il suo zaino come fosse uno scudo. Non ho bisogno d’altro per darmi la forza di tirarmi su del tutto. Ringrazio chi c’è lassù di essere stato colpito al braccio sinistro e non a quello destro, poi estraggo dal mio zaino la pistola automatica e inizio a fare fuoco.
Non sono mai stato Roland di Gilead, ma prima di questo periodo, quando la vita era ancora vivibile, mi ero divertito abbastanza spesso al poligono. Sparo per primo all’uomo che sta attaccando Margherita. Lo prendo ad una gamba invece che alla schiena come avrei voluto, ma lui cade a terra e io così riesco a piantargliene un altro in testa e mettere fine ai suoi tormenti. Poi avanzo come fossi il giudizio di Dio che scende sugli uomini.
Sparo a tutti quelli che vedo, ma in particolare sparo a chi ha in mano pistole e fucili. Prima di rendersi conto che è una delle loro prede che li sta attaccando e che non sono loro a fare fuoco, ne riesco a tirare giù almeno cinque. Nel frattempo, i miei compagni che hanno avuto respiro dagli attacchi tirano fuori le loro armi dagli zaini e iniziano a darmi man forte. Non eravamo pronti, ma non eravamo nemmeno impreparati. Ognuno di noi, sin dall’inizio della crisi, si era procurato almeno una pistola e ognuno di noi si era allenato a saperla usare.
Alla fine, dei venti che ci hanno attaccato ne restano a terra tredici.
Restano a terra però anche cinque dei nostri, e una era la madre di tre bambini.
È così che scopriamo il lato peggiore di noi stessi come razza umana, come se non lo avessimo visto finora. Ed è per questo che da quel giorno in poi le armi le portiamo sempre alla cintura e sempre esposte, in modo da scoraggiare ogni potenziale attacco.
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Quell’episodio di violenza è l’ultimo prima di un periodo di tranquillità che ci porta fino a quello che è stato il luogo più vivibile in cui siamo riusciti a stabilirci da tempo. Il posto non ha nome, ma è una vasta radura che si trova a poca distanza dal monte Grintovec, sulle Alpi della Carinzia. Qui, una fortunata coincidenza di meteo favorevole e di protezione da parte delle montagne ci ha reso possibile stabilire una colonia che, a parte alcune calamità minori, è relativamente sicura. Qui, grazie alle nostre conoscenze, siamo riusciti a costruire qualcosa di più duraturo del solito, siamo riusciti a coltivare, siamo riusciti a cacciare.
Riusciamo a stabilirci per abbastanza tempo da vedere finalmente i miei ragazzi diventare indipendenti, ma non abbastanza da vedermi invecchiare troppo.
Ogni tanto arriva qualcuno in viaggio alla ricerca di un porto sicuro e quelli li accogliamo, se vogliono fermarsi con noi.
Ogni tanto arriva invece qualcuno che cerca di rubarci tutto quello che abbiamo finora ricostruito. Anche quelli li accogliamo, ma non come si aspettano loro.
Ormai siamo diventati abbastanza, le armi non ci mancano e nemmeno chi le sappia usare. Chi ci attacca non vive abbastanza per poterlo raccontare. Ogni tanto mandiamo in perlustrazione nelle città più vicine dei gruppi di ragazzi per raccogliere attrezzature e materiali che non siano già stati saccheggiati e che possano servirci, e armi e munizioni sono sempre in cima alla lista della spesa. Non ho più intenzione di perdere nessuno perché non sono stato abbastanza previdente.
Non è facile organizzarsi sapendo che da un momento all’altro tutto potrebbe essere spazzato via, ma qui riusciamo a farlo e per ora va bene così. Ormai ci è diventato evidente come il “per ora” sia l’unica cosa a cui possiamo aspirare.
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È uno dei nuovi che accogliamo che ce ne parla per la prima volta. Lui non è italiano, è tedesco, ma per fortuna molti del gruppo sono praticamente bilingue. Quando ce lo racconta però per un po’ non gli crediamo: quello che dice ha dell’assurdo. Senza contare il fatto che Fritz (sembra quasi uno stereotipo, con un nome così), non sembra starci molto con la testa.
La storia che racconta cade quindi nel dimenticatoio fino a che non me la sento ripetere da un’altra donna, Lucia, e poi da un altro uomo, Mark, anche lui tedesco. Quello che dicono ha dell’incredibile, ma data la situazione è probabile che ci sia del vero.
E quello che dicono è che prima di arrivare al nostro rifugio hanno incontrato lungo la strada un altro luogo protetto. Mark e Lucia hanno avuto modo di vederlo da lontano, Fritz invece ha avuto la sfortuna di sbatterci addosso.
Raccontano di cordoni di sorveglianza attorno a un compound fortificato, di uomini armati, di torrette, di recinti, di chilometri di filo spinato attorno a zone protette. Raccontano di essere riusciti a sfilare sotto il naso delle guardie solo per caso, per una svista di quegli uomini o per una provvidenziale sosta pipì. Fritz invece racconta di esserci finito contro, lui e gli altri sei del suo gruppo, e solo lui è riuscito a scampare al fuoco dei mitra.
Ho un’idea di cosa potrebbe essere tutto ciò, ma non la condivido con nessuno. Mando però in avanscoperta i miei cinque uomini migliori (che in verità sono due donne e tre uomini), seguendo le indicazioni di Mark e Lucia. Voglio vederci chiaro e, se sarà confermato quello che immagino, sarà il momento di decidere qualcosa di più serio di dove stabilire la prossima latrina.
Quando tornano dalla perlustrazione quello che sento conferma tutto quello che ci hanno raccontato. C’è davvero un compound a sei giorni di cammino da noi, ed è enorme. Ci sono almeno una trentina di uomini che lo pattugliano all’esterno, e altrettanti sulle mura e sulle torrette. Non sono stati in grado di vedere chi ci fosse oltre alle mura, ma quell’insediamento è chiaramente abitato. Arrampicandosi sugli alberi attorno sono riusciti a vedere qualcosa all’interno ed è evidente che ci siano coltivazioni, case e una delle perlustratrici è convinta addirittura di aver visto degli animali dentro a un recinto.
Io so chi c’è lì dentro. O meglio, non lo so, ma posso ragionevolmente dedurlo.
Chi mai potrebbe avere avuto i soldi, il potere e le conoscenze per trovare il posto giusto dove costruire tutto questo, sapendolo essere il luogo migliore in cui rifugiarsi in caso di catastrofe? Chi potrebbe essere riuscito ad assoldare tutta quella gente e a fare in modo che nessuno li disturbasse mentre scappavano da un mondo sempre più inospitale?
Gli stessi che avevano continuato fino alla fine a fingere di stare facendo qualcosa per salvare la Terra dal cambiamento climatico, mentre in verità continuavano a sfruttarla a morte. Gli stessi più interessati alla loro poltrona che alla salvezza dell’umanità. Gli stessi che però nel mentre sapevano che se anche tutto fosse andato all’inferno, loro avrebbero avuto la loro personale arca di Noè per sopravvivere al peggio.
Sento dentro di me smuoversi un’emozione che era da molto sopita: l’odio per chi ti ha causato un male irreparabile e che se l’è cavata senza conseguenze. So che sono loro e so che cosa vorrei fargli, ma soprattutto so cosa potrebbe essere per noi quel compound se ne prendessimo possesso. Non posso però decidere io da solo, perciò questa volta indico una riunione generale, racconto cosa abbiamo scoperto e racconto chi penso ci viva dentro.
Non nascondo la mia rabbia, ma non nascondo nemmeno il pericolo di quello che vorrei fare. E non nascondo neppure l’opportunità nascosta dietro a quel cordone di guardie e a quelle alte mura. L’opportunità finalmente di fermarsi e di avere una base più sicura per il proprio futuro, l’opportunità di avere di nuovo una casa.
Il mio gruppo, e ormai siamo quasi trecento persone, non si fa convincere dalle opportunità ed è invece spaventato dai rischi. Si fa convincere però quando capisce chi c’è lì dentro, ed è ancora una volta la rabbia a smuovere le cose.
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Passiamo due settimane a pianificare, valutare, addestrare.
Due settimane in cui potrebbero nascere dubbi, in cui la paura potrebbe avere il sopravvento.
Due settimane in cui nulla di tutto questo avviene, ma anzi la determinazione aumenta.
E dopo due settimane di discussioni e di preparazione, finalmente partiamo e la forza che portiamo con noi è di almeno centocinquanta persone. Sarà un attacco che partirà in modo furtivo, ma che poi richiederà tutta la nostra forza per poter avere successo.
Quando arriviamo all’ultimo tratto siamo in pochi ad avanzare, inizialmente: uno per ognuna delle guardie che circondano il compound. L’idea è eliminarle singolarmente nello stesso momento, per poi assaltare tutti insieme le porte blindate, che sono quattro e si trovano al centro di ognuno dei lati del forte. Nel frattempo, i più agili scaleranno le torrette per eliminare le ultime guardie.
È più facile a dirsi che a farlo sul serio, ma è il piano migliore a cui siamo arrivati.
Io sono il leader e quindi sono uno dei primi a muovermi. Ci avviciniamo senza fare rumore, usando il sottobosco come schermo per non farci vedere. Poi, quasi simultaneamente, saltiamo fuori dai cespugli, colpendo le guardie di sorpresa. Un paio riescono a vederci prima che gli arriviamo addosso, qualcun’altra riesce a difendersi meglio del previsto e a causa di questo trambusto gli uomini sulle torrette si accorgono di noi prima di quanto avremmo voluto.
È il momento di attaccare in forza.
Cominciamo a sparare alle guardie nel compound da ogni lato, costringendole ad abbassarsi dietro ai parapetti. Nel frattempo dalla foresta emerge di corsa il resto del nostro piccolo esercito, che si lancia a piena velocità verso le torrette e verso le porte blindate. I più agili si arrampicano sulle pareti come fossero ragni, con corde e rampini, mentre gli altri continuano con il fuoco di sbarramento da ogni lato, mentre avanziamo. Il forte però è enorme e non riusciamo a coprirlo tutto come avremmo voluto, lasciando alle guardie punti scoperti da cui riescono ad affacciarsi e a rispondere al fuoco.
Iniziano a rimanere a terra anche alcuni dei nostri, ma quelli che rimangono sanno che non possono fermarsi: ormai siamo all in ed è vittoria o morte.
Assaltiamo le porte blindate con tutta la nostra forza, mentre una parte di noi continua a coprire chi si sta arrampicando sulle mura e sulle torrette. Sono loro la nostra speranza più grande, perché non abbiamo esplosivi di sorta e ci accorgiamo subito che nemmeno le fucilate riescono a penetrare o indebolire le porte.
Devono riuscire ad aprirci dall’interno.
Non abbiamo walkie talkie, dato che le ultime batterie funzionanti penso risalgano a dieci anni fa, ma arriviamo lo stesso tutti insieme alla stessa conclusione. Lasciamo perdere le porte e rafforziamo il fuoco di copertura per permettere a chi si sta arrampicando di avere campo libero, così alcuni dei nostri riescono ad arrivare oltre le mura. Al di là di esse non riusciamo a vedere, per cui non sappiamo quale sia la situazione, ma non deve essere un’impresa facile attraversare il compound nel bel mezzo dei nemici. Alla fine, di tutti quelli che riescono ad oltrepassare le mura, non rivedremo vivo nessuno. Qualcuno di loro però riesce a mettere in azione il meccanismo di una delle porte prima di morire crivellato di colpi.
È la porta più vicina a me, e appena si schiude entriamo sparando come fossimo in un film di guerra. Molti del nostro gruppo vengono falciati sul posto, ma qualcuno ce la fa e da quel momento è una strage.
Alcuni di noi si dirigono alle altre porte, gli altri li coprono e ingaggiano battaglia con le guardie ancora in piedi. Ognuno di noi arriva da anni di sopravvivenza in mezzo alle difficoltà, combattendo ogni giorno con le unghie e i denti per la propria vita. Loro arrivano da anni di agiatezza, in cui il solo rimanere fuori dalle mura con un’arma in mano era sufficiente ad assicurargli una comoda esistenza. C’è stata molta compiacenza, probabilmente, e ora la pagano tutta con il sangue. Non ci viene dato quartiere, ma nemmeno noi ne lasciamo, e alla fine le poche guardie rimaste ancora vive si arrendono.
Sono ventitré i corpi dei nostri compagni che rimarranno a terra, ma alla fine, tra sangue, paura e urla, prendiamo possesso del compound.
È allora che, finalmente, vediamo chi abita quelle case, e ci sembra quasi di essere in uno di quei vecchi programmi televisivi in cui vedevi fianco a fianco celebrità e persone sconosciute. Lì gli sconosciuti saranno sicuramente quei banchieri o quei miliardari che si erano comprati una via per la salvezza fregandosene dei più poveri, ma le celebrità. Che celebrità.
Sono io il primo a sparare in faccia a uno di loro, quando lo riconosco. Era uno dei più potenti governanti della parte ricca del mondo, e uno degli ultimi a muovere un dito quando fu il momento di fare qualcosa per provare a salvare il pianeta dalla crisi ambientale, nascondendosi dietro a slogan, falsità e corruzione. Non pensavo di avere ancora così tanta rabbia dentro di me, dopo tutti questi anni, ma il solo riconoscerlo mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha ricordato l’impotenza, la frustrazione e infine il dolore che quelli come lui ci hanno portato.
È Mark a uccidere il secondo, un magnate dei social che aveva causato a chi li usava solo disprezzo per se stessi, diffondendo disinformazione e nascondendo la verità sul cambiamento climatico in tutte le maniere possibili.
Altri due di loro vengono uccisi subito dai miei compagni, ammazzati nella furia che ci è rimasta dopo la battaglia, ma poi ci fermiamo, nonostante sia difficile, nonostante la rabbia diventi sempre più forte a vederli qui, ben nutriti, con la faccia distesa, senza una preoccupazione al mondo. Dopo tutto quello che hanno fatto, tutto quello che hanno causato, loro sono qui a godersi la vita, mentre ognuno di noi rischia la sua ogni giorno, dopo aver perso ogni cosa e spesso anche ogni persona cara.
Quello che ci ferma è che ci sono anche famiglie, bambini, vecchi. Dovremmo ammazzarli tutti, se continuassimo con questo ragionamento?
Il dubbio si trasforma in discussione e, mentre loro rimangono in attesa come pecore al macello, noi discutiamo del loro futuro. Discutiamo e discutiamo a lungo e quello che alla fine decidiamo di fare è qualcosa che fingiamo sia misericordia, sapendo bene che così non è.
Gli lasciamo prendere uno zaino con la loro roba e poi li buttiamo fuori dal compound, dicendogli di andare via per sempre e di non farsi più vedere, pena la fucilazione a vista. Gli facciamo scegliere se lasciare i bambini con noi o no, ma nessuno di loro o dei vecchi potrà rimanere.
Ognuno di essi è stato colpevole di qualcosa, fosse anche solo di aver taciuto. Ognuno di essi merita quello a cui li stiamo condannando. Chissà, magari alla fine riusciranno perfino ad adattarsi e a farcela da soli.
Noi però speriamo che così non sia.
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Quando tutto finisce andiamo a prendere chi è rimasto al nostro campo e le attrezzature e ci impossessiamo definitivamente del compound.
Quello che abbiamo fatto per ottenerlo non è stato facile, non è stato bello e forse non è neppure stato così giusto. Ma in un mondo come quello in cui viviamo, poter avere un luogo sicuro in cui vivere è diventato un lusso a cui non possiamo rinunciare. E chi ci abitava non poteva rimanere impunito.
Ho dei momenti però in cui penso a quello che abbiamo fatto, alla violenza che abbiamo scatenato e alle vite che abbiamo spezzato e lo stesso ho dei rimorsi. Non solo per i miei compagni che sono caduti nell’impresa, ma anche per quelli di loro che abbiamo ucciso.
Poi però penso a tutto quello che hanno fatto, loro, a tutto quello che hanno causato con le loro azioni e con le loro inazioni. Penso a chi ho visto morire per fame o sete, o spazzato via da un uragano o da un’alluvione, e tutto causato dalle loro scelte scellerate.
E i rimorsi mi passano e mi dedico piuttosto a pensare alla nostra situazione, che finalmente, dopo tanto tempo, sembra positiva.
Il meteo qui sembra più tranquillo perfino di dove eravamo: se l’erano studiato bene, quel rifugio. Ho quindi buone speranze per il nostro futuro. Forse nemmeno questo sarà per sempre, ormai lo sappiamo bene, ma almeno per un po’ sarà il nostro posto. Un posto in cui sentirsi sicuri, un posto in cui crescere, un posto in cui vivere.
Un posto da chiamare casa.